Che cos'è la filosofia? 

 

LA TORPEDINE NEL POZZO

 

In uno dei suoi scritti più noti Platone presentava un colloquio tra due personaggi, uno  dei quali è il suo maestro, Socrate, e l’altro un certo Menone. E’ in bocca a quest’ultimo che l’autore pone le parole che, meglio di qualsiasi discorso, esprimono la relazione della gente comune non soltanto di fronte a Socrate, ma al filosofo e alla filosofia in generale:

Socrate, anche prima d’incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che non fai che mettere in dubbio te e gli altri; ora poi, come mi sembra, mi affascini, mi dai beveraggi, m’incanti, tanto da non avere più alcuna via d’uscita. E, se mi è lecito scherzare, mi somigli davvero, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine di mare: perché anche questa, se qualcuno le si avvicini e la tocchi, subito lo fa intorpidire. Ora mi sembra che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, perché sono veramente intorpidito, nell’anima e nella bocca, e non so più cosa risponderti. (Platone, Menone, 79 e - 80 b)

Questa osservazione dice tutto il disagio da cui si sente prendere che si trovi ad avere a che fare con la filosofia. Il vedere mettere in discussione le proprie certezze, il proprio modo di vedere e d’agire, lo disorienta e lo paralizza. L’uomo ammutolisce, come Menone di fronte a Socrate. Bisogna tuttavia riconoscere che quanto un personaggio di Platone dice, circa la mancanza di ogni via d’uscita, non è del tutto esatto: una via d’uscita da questo stato di cose d’inquietudine esiste nell’indifferenza. Questi filosofi, in fondo, non sono cattivi. Solo un po’ matti. Basta non prenderli sul serio, rendersi conto che essi vivono in un mondo particolare, che nulla ha a che fare con quello della vita reale.

Sembra riconoscerlo, del resto, lo stesso Platone, quando osserva che accade al filosofo

quello stesso (...) che si racconta anche di Talete, il quale, mentre stava mirando le stelle e aveva gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che delle cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che aveva davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può ben applicare a tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità non solo non si avvede di chi gli è appresso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti invece di ritrovare che cosa l’uomo è e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza degli altri esseri, conviene fare e patire, agli adopera in questo ogni suo studio (...). Ebbene, amico mio, quando un uomo simile, o in privato o in pubblico, si trovi, come dicevamo in principio, a contatto con qualcheduno; e sia costretto, o in tribunale o altrove, a ragionare di ciò che hai tra i piedi e davanti agli occhi; ecco che cade anche lui, per sua inesperienza, dentro ai pozzi e s’impiglia in difficoltà d’ogni sorta, suscitando il riso non pur delle serve di Tracia, ma di tutta la gente, perché la sua goffaggine è straordinaria e gli fa fare la figura dello scimunito. (Platone, Teeteto, 174 a - c)

Davanti a quest’uomo che, con tutta la sua filosofia, anzi proprio a causa di essa, si rivela spesso incapace di curare efficacemente i propri interessi pratici, la prima impressione di smarrimento che il filosofo poteva suscitare svanisce. Il silenzio, misto di sorpresa e di irritazione, che la scossa della torpedine aveva provocato nell’ascoltatore, si è ora mutato in un sorriso.

A questo punto la questione potrebbe anche considerarsi chiusa e il problema della filosofia liquidato - e lo è, in effetti, per la grande maggioranza delle persone. Ma esiste anche un’altra possibilità. Ci si può rendere conto che anche il sorriso è in fondo una difesa, un modo di esorcizzare la sottile inquietudine provocata dai discorsi dei filosofi. E si può desiderare di andare avanti, di capire il perché di questa inquietudine, interrogando le uniche persone che forse potrebbero spiegarlo, cioè gli stessi filosofi. E’ questo che ci proponiamo di fare in questi tre anni di comune vita liceale.

 

 

I DESTI E I DORMIENTI

 

La risposta più antica, forse, è quella di un pensatore vissuto circa cinquecento anni prima dell’era cristiana, Eraclito di Efeso. La maggior parte degli uomini, egli dice, vivono come immersi in un sonno; perciò ad essi

rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo. (Eraclito, fr., 1)

Cerchiamo di comprendere di comprendere questa affermazione, a prima vista un po’ strana. Qual è la condizione di chi dorme? Egli si trova fisicamente presente al mondo, alle situazioni, alle persone che si muovono intorno a lui. Vi è una realtà oggettiva di cui egli fa parte e che ha un suo significato. Ma il dormiente la ignora. Egli, finché dura il sonno, vive in una realtà illusoria che è quella dei suoi sogni, belli o brutti che siano. Di ciò che accade in sua presenza, degli altri che lo circondano , di se stesso il dormiente ha una confusa percezione solo in quanto tutto ciò entri a far parte del suo sogno; ma allora ogni cosa è vista in modo diverso da come in effetti è, trasfigurata secondo gli stati d’animo di colui che sogna. Questa, dice il filosofo, è la condizione della maggioranza delle persone.

La città dove Eraclito viveva, Efeso, era una delle più importanti e più prospere dell’Asia Minore. Come le altre colonie greche della regione, era sede di intense attività commerciali e agitata da complessi giochi politici. Vi era, dunque, un fervore di vita paragonabile, con le debite proporzioni, a quello delle nostre metropoli.

Ebbene, questa attività febbrile, questa corsa alla ricchezza, al successo, sono per Eraclito paradossalmente, una specie di sonno. In questa corsa frenetica gli uomini diventano incapaci di percepire la realtà quale essa è effettivamente e restano prigionieri delle loro illusioni. E poiché ognuno ha le sue, viene meno la possibilità di un’intesa tra le persone: il singolo si costruisce il proprio piccolo mondo e lo scambia per quello oggettivamente esistente, ignaro delle esigenze, delle speranze, delle gioie e dei dolori degli altri uomini.

Unici e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare. (Eraclito, fr., 89)

Perciò diventa impossibile anche il dialogo.

Tra i frammenti che sono rimasti di Eraclito vi è questo durissimo, che va riferito presumibilmente agli indaffarati cittadini di Efeso, ma che potrebbe essere posto come un marchio sulla vita di molti uomini del nostro tempo:

Incapaci di ascoltare e di parlare. (Eraclito, fr., 19)

Chi rimane chiuso nelle proprie anguste prospettive, gioiose o tristi, non ha nulla da dire, per quante parole pronunzi, né da ascoltare, per quanto apparentemente stia a sentire.

Ci chiedevamo perché gli uomini siano disorientati dalla filosofia; ora forse sappiamo che cosa risponderebbe Eraclito. Fare filosofia significa destarsi, aprire gli occhi sulla realtà, su

quest’ordine universale che è lo stesso per tutti, (Eraclito, fr., 30)

rinunziando a vedere tutto in funzione del proprio punto di vista unilaterale. Ma è proprio per questo che gli uomini, più o meno coscientemente, rifiutano di fare. E il malessere che avvertono di fronte al richiamo del filosofo è quello che prova chi non vuole destarsi.

 

 

LA CACCIA ALLA LEPRE

 

Diversi secoli dopo un altro pensatore si è preoccupato di approfondire ulteriormente la questione. Questo pensatore si chiamava Blaise Pascal e non viveva nel clima culturale della Grecia antica, bensì in quello della Francia del sec. XVII. L’unico elemento che lo accomuna ad Eraclito è dunque che anch’egli ha notato che gli uomini non amano riflettere sul loro destino e sulla realtà che li circonda e ha cercato di comprendere come e perché questo accada.

Ciò che Eraclito esprimeva con l’immagine del sonno, Pascal lo chiamava ‘divertimento’. Con questo termine però, egli non vuole indicare soltanto quei momenti di riposo, di gioco e di allegria che ognuno, nella sua vita, deve avere. Per Pascal ‘divertimento’ è ogni occupazione in cui l’uomo si getta per non pensare alla propria miseria e, in generale, al problema angoscioso della propria esistenza (dal latino de-vertere, volgere altrove la propria attenzione). Da questo punto di vista anche il lavoro, tutto ciò che si fa può essere vissuto come ‘divertimento’.

Così si spiega perché sono ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la vera beatitudine consista nel possedere il denaro che si può guadagnare al gioco, oppure nell’inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non le vorremmo. Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte. Questa è la ragione per cui si gusta più la caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto; per questo la prigione è un supplizio così orribile; per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. (...) Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. E quelli che fanno i filosofi su questo e credono che il mondo è troppo poco ragionevole nel passare tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non accetterebbero se comprata, non conoscono la nostra natura.  Quella lepre non ci garantirebbe dalla visione della morte e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce. (Pascal, Pensieri, n° 139)

Queste parole sono piene di tristezza. “Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici”. Un grande, tragico gioco, per illuderci ancora un istante e non vedere la morte. Ma il prezzo di tutto questo è molto alto. Il ‘divertimento’ diventa, in definitiva, una fuga da se stessi. L’uomo, sbarazzandosi del proprio destino abdica alla propria grandezza e si perde nelle situazioni e nelle cose fuori di lui.

L’unica cosa che ci consola delle nostre miserie è il divertimento, e intanto questa è la maggiore delle nostre miserie. Perché è esso che ci impedisce principalmente di pensare a noi e ci porta inavvertitamente alla perdizione. (Pascal, Pensieri, n° 171)

Non dobbiamo fare uno sforzo eccessivo per comprendere l’atteggiamento di cui qui si parla, si tratti del lavoro o del tempo libero, ciò che l’uomo contemporaneo teme più di ogni altra cosa è il momento in cui intorno a lui si spegne l’assordante rumore delle macchine e degli altri uomini ed egli resta solo nel silenzio.

E’ per questo che, quando esce dalla fabbrica dove lavora o dal suo studio di professionista non cerca altro che “qualcosa da fare”, magari gettandosi nel frastuono della musica di una discoteca o di un night club, o, più modestamente, andando al cinema o guardando la televisione. Perfino in auto si ha paura di restare troppo soli con i propri pensieri e ci si affretta a accendere la radio. E più grande è il vuoto, maggiore è la quantità di preoccupazioni in cui ci si rifugia per non avere tempo di pensare.

Poiché il lavoro e lo svago si riducono a due diverse manifestazioni di un unico atteggiamento di fondo, il ‘divertimento’, si comprende perché essi tendano ad assumere forme sempre più simili: il frenetico movimento di un ufficio non è molto diverso dal brulichio di una spiaggia affollata; il traffico caotico dei giorni feriali non fa che trasferirsi, in quelli festivi sulle autostrade che portano al mare o ai laghi. Sempre la stessa ansia, la stessa fretta, la stessa tensione nei confronti delle persone e delle cose.

E ovunque lo spettacolo di un’umanità sfinita ed esasperata che si agita, si angoscia, si esalta in una corsa verso mete che, quando si sono raggiunte, lasciano insoddisfatti e delusi, di nuovo irrequieti e ansiosi di raggiungerne altre, come il cacciatore cui non piace la lepre e che, dopo aver tanto faticato per ucciderla, la butta via per cercarne un’altra.

 

 

IL SI

 

Un ulteriore passo alla nostra ricerca può forse essere costituito dalle riflessioni di un pensatore tedesco contemporaneo, forse il più importante del Novecento: Martin Heidegger. Ancora una volta, ciò che ci interessa, in queste riflessioni, è la risposta alla nostra domanda: perché gli uomini hanno paura della filosofia? E ancora una volta la soluzione viene, indirettamente, dall’esame della condizione umana.

La maggior parte degli uomini, secondo Heidegger, vive una vita anonima, in cui non si ha il coraggio di sopportare il rischio di essere se stessi. E’ il regno del ‘si’, della forma impersonale. Non si osa dire ‘io’, ma ci si mimetizza nella massa senza volto che dà sicurezza.

Ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica (...), troviamo ‘scandaloso’ ciò che si trova scandaloso. (M. Heidegger, Essere e tempo, Torino, 1969, U.T.E.T., pp. 215-16)

Ogni giorno possiamo verificare la verità di questa denuncia. Ne è una evidente testimonianza non solo il comportamento di coloro che siamo soliti definire ‘conformisti’, ma anche lo stile degli altri, degli ‘anticonformisti’: proprio fra di loro il dominio delle mode, delle frasi fatte, dei comportamenti rituali, si rivela spesso più marcato - sicuramente più impressionante perché accompagnato dalle ingenua certezza di stare sfidando una società che in effetti, a loro insaputa, li ha sottomessi alla sua legge.

In questo modo si sfugge il vero problema, che è quello di sapersi assumere la responsabilità della propria libertà. L’incapacità di scegliere è una nota costante degli uomini del ‘si’. Si va avanti lasciandosi condurre dal flusso mutevole di ciò che gli altri fanno, pensano, dicono, scaricando su di essi la responsabilità di ciò che noi stessi siamo:

Il Si (...) può rispondere a cuor leggero di tutto perché non è ‘qualcuno’ che possa essere chiamato a render conto (...). Ognuno è gli Altri, nessuno è se stesso. (M. Heidegger, op. cit., pp. 216-17)

Nell’uomo dell’esistenza anonima, dominata dal si, la parola degenera in chiacchiera, l’interesse per il mondo che ci circonda in ‘curiosità’, l’autentica comprensione delle cose in ‘equivoco’.

Nella ‘chiacchiera’ - nota Heidegger - “ciò che conta è che si discorra”. Le parole, che dovrebbero servire ad esprimere la realtà delle cose, ne diventano il surrogato: “le cose stanno così perché si dice”. A questo punto il discorso su di un argomento non è più modo per accostarsi veramente ad esso, un modo di prenderne coscienza, ma diventa una chiusura a ciò di cui di discorre, un modo di banalizzarlo e di svuotarlo della sua ricchezza.

Quanto alla ‘curiosità’, essa

non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede (...), ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino per il nuovo (...). la curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Essa rifugge dalla contemplazione serena, dominata com’è dall’irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la novità e il cambiamento”. (M. Heidegger, op. cit., p. 257).

In un mondo dove gli uomini sono bombardati da ogni genere di stimoli, l’attenzione passa freneticamente dall’uno all’altro, senza sapersi fermare per sforzarsi di penetrare il senso di qualcuno di essi. Articoli di giornale, immagini televisive, cartelloni pubblicitari, tutto viene ‘scorso’ da uno sguardo tanto più avido quanto meno capace, in fondo, di recepire veramente la realtà.

Così nasce, naturalmente, l’equivoco’:

Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è. (M. Heidegger, op. cit., p. 276).

Per anni si vive in una situazione, con certe persone, sicuri del nostro posto, delle nostre amicizie, soddisfatti di quanto la vita ci ha dato. Poi, magari per un banale incidente, questa illusione “di una vita veramente ‘vissuta’” (M. Heidegger, op. cit., p. 276) si dilegua di colpo e si rivela per quello che è: appunto, un ‘equivoco’, una menzogna in cui ci si è crogiolati per difendersi dalla verità.

In questo modo, partendo dall’immagine del ‘sonno’ usata da Eraclito, attraverso le osservazioni sul ‘divertimento’ fatte da Pascal, siamo giunti con l’analisi di Heidegger riguardo all’esistenza anonima, a comprendere un poco meglio il rifiuto della filosofia da parte dell’uomo di tutti i tempi e di quello contemporaneo in particolare.

Un rifiuto che ha a che fare con l’atteggiamento più profondo della persona verso il proprio essere e il proprio destino, se è vero che la pretesa della filosofia è di affrontare il mistero che in essi si nasconde e che l’uomo teme di guardare.

Il processo al filosofo, la volontà di eliminarlo - si pensi alla sorte tragica di Socrate - si rivelano allora emblematici del tentativo di ogni uomo, più o meno consapevolmente, compie per soffocare dentro di sé l’inquietudine di una domanda che si vuol far tacere.

 

 

PER UN IGNOTO SENTIERO

 

Se la filosofia, malgrado tutto, continua a rifiorire di epoca in epoca, è perché la domanda sul senso della vita è troppo radicata nel cuore dell’uomo perché la si possa uccidere. Se non altro, essa esige di essere affrontata per rispondere a un’altra domanda, cui nessuno può sottrarsi: quella sul senso della morte.

Troviamo una testimonianza di ciò che è sicuramente una delle più antiche espressioni letterarie della storia della civiltà, l’Epopea di Gilgamesh, la cui composizione sembra risalga a un periodo tra il 1300 e il 1100 a. C. Vi si narra la storia dell’eroe sumero Gilgamesh, re della città di Uruk. In lui risplende la pienezza delle doti fisiche e psicologiche del vero uomo, secondo la concezione eroica dell’antichità.

Sono significative le parole con cui viene presentato ad Enkidu, che diventerà poi il suo fedele compagno di avventura

Enkidu che gioisci della vita, a te farò vedere Gilgamesh, uomo allegro. Osservalo, guarda la sua faccia! E’ bello per prodezza, ha grande forza, è adorno di voluttà tutto il suo corpo, ha possanza potente più di te, non riposa né di giorno né di notte.

Il senso di grandezza e di forza, che questo quadro lascia trasparire, è impercettibilmente turbato dall’ultima osservazione: vi è in Gilgamesh una inquietudine inestinguibile, che gli impedisce di trovare risposta. Di essa è segno la sua irrequietezza sessuale, che lo spinge a possedere quante più donne gli è possibile, sfruttando le sue prerogative regali.

E’ proprio l’incontro con Enkidu a cambiare la sua vita. Questi è una specie di bruto, mezzo uomo e mezzo bestia, fortissimo, che gli dèi hanno mandato a misurarsi con Gilgamesh. Ma dopo uno scontro che fa conoscere loro il rispettivo valore, i due diventano amici. E la scoperta dell’amicizia sembra aprire a Gilgamesh un nuovo orizzonte, più ampio che non quello dell’appagamento sensuale: ora egli aspira a compiere, insieme ad Enkidu, imprese valorose che diano gloria e fama immortali al suo nome.

Dietro quest’ansia di avventura, però, si intravede ancora la stessa irrequietezza di un tempo. E sua madre, piena di ansia, si lamenta con il dio: “perché hai dato a mio figlio Gilgamesh un cuore cui non è concesso riposo?”

Ma una svolta viene a sconvolgere la vita del re di Uruk. Enkidu si ammala e muore, il pianto di Gilgamesh è forse il più antico in cui il tema dell’amicizia e quello della morte si mescolino del dolore umano.

Con l’improvvisa irruzione della morte, la bellezza, la sicurezza, la forza di Gilgamesh rivelano tutta la loro vanità. Ciò che nella sua vita costituiva motivo di orgoglio e di allegrezza perde significato.

Anche Enkidu era forte, valoroso e adesso è un corpo inerte. Gilgamesh si rende conto con angoscia che la sua sorte sarà, prima o poi la stessa dell’amico: “io, quando morrò, non sarò come Enkidu? Lo spavento è entrato nel mio animo”.

Un’immensa ansia di vivere divora ormai l’eroe. Un’ansia che prima forse trovava espressione nella gioia dell’istante, al tempo delle sue vicende amorose con le donne di Uruk; e che poi si era manifestata nella ricerca di quella specie di immortalità che viene dalla gloria. Ora, sotto l’urto dell’esperienza della morte, questa ricerca della vita non può accontentarsi più di surrogati: Gilgamesh vuol vivere lui, in persona e non attraverso la fama delle sue imprese presso gli uomini che verranno.

Perciò egli abbandona la sua reggia, la sua città, le sue attività abituali, e si mette in viaggio alla ricerca di chi gli possa svelare il segreto di una vita senza fine. Così vaga per anni, sempre più stanco, sempre più lacero, ma disperatamente ostinato nella sua ricerca. La bella dea Siduru, che gli si fa incontro a un certo punto del cammino, cerca di convincerlo impietosita dal suo aspetto sfinito.

Gilgamesh, dove corri? La vita che tu cerchi non troverai. Quando gli dèi hanno creato l’umanità, la morte hanno stabilito all’umanità, la vita hanno tenuto nelle loro mani. Tu, Gilgamesh, riempi il tuo ventre! Giorno e notte rallegrati, ogni giorno fa’ festa, giorno e notte danza e canta! Sia pulito il tuo vestito, il tuo corpo sia lavato, con acqua tu sia bagnato. Rallegrati del piccino che afferra la tua mano, la moglie goda del tuo grembo! Questo è il compito dell’umanità.

In queste parole riecheggia tutta la nostalgia di una vita serena, senza domande, senza angoscia, senza ricerca, contenta del dono che ogni piccola gioia quotidiana rappresenta. Nell’esistenza di ogni uomo viene, prima o poi, l’ora dell’incontro con Siduru. L’ora in cui ci si ricorda delle dolci cose che si sono lasciate per mettersi in cammino verso una meta sconosciuta, e ci si chiede se valga la pena davvero di continuare ...

Ma quella dolcezza nasconde una rassegnata disperazione. “La vita che tu cerchi non troverai”. Gilgamesh non vuole rassegnarsi. Per questo egli si lascia alle spalle il richiamo delle gioie che sono alla portata degli uomini e continua il suo cammino.

In un certo senso Siduru aveva ragione. La fine del poema è la storia di una sconfitta. L’eroe, dopo aver messo a repentaglio la sua vita, traversando il mare dalle acque maledette, sembra per un momento aver raggiunto il suo scopo. Per un momento la pianta della vita, mangiando della quale non si muore, è nelle sue mani, ma solo per un momento. Un serpente, approfittando di un istante di distrazione dell’eroe, gliela rapisce. “Allora lui, Gilgamesh, si sedette e pianse”.

Eppure, malgrado questo fallimento, anzi forse proprio a causa di esso, la vicenda del re di Uruk potrebbe essere assunta a simbolo di quella di ogni uomo che cerca, per sfuggire alla morte, le radici segrete della vita. E’ un’avventura difficile, aspra, davanti cui il cuore si sgomenta.

Un passo del poema, fra gli altri, esprime tutto ciò mirabilmente.

Vi si descrive la virile emozione di Gilgamesh nell’atto di partire per una delle più difficili e pericolose imprese.

Dagli occhi di Gilgamesh scorrevano lacrime: “Sto per prendere una strada che non ha mai percorso (...) Per una via lontana (...) voglio andare, affrontare una battaglia che non conosco, camminare per un sentiero che non conosco”.

Per questo ignoto sentiero Gilgamesh dovrà avventurarsi, per misurarsi non con un gigante o una belva, ma con il destino dell’uomo.

 

 

SCACCO AL RE

 

A più di tre millenni di distanza, una sfide rivive in un film: Il settimo sigillo, di I. Bergman. Qui la vicenda è ambientata nel tardo medioevo. Antonius Block, nobile cavaliere di ritorno dalla Terra Santa, dove ha partecipato alle crociate, è in viaggio per rientrare al suo castello. Ma il suo cuore è oppresso dall’angoscia, perché la fede, per cui così a lungo ha combattuto, sembra essere svanita in lui e la sua mente dubita.

Mentre è in cammino, incontra la Morte. La sua ora è venuta. Il cavaliere, però, non si sente ancora pronto a morire. Prima vuole trovare la verità. Perciò, per prendere tempo, sfida la Morte a una partita di scacchi: “La posta è che potrò vivere finché riuscirò a resisterti. Se vinco mi rilascerai”.

La Morte accetta e la partita ha inizio. Da questo momento, durante tutto il corso del viaggio, tra una vicenda e l’altra, i due avversari si ritroveranno davanti alla scacchiera per fare le loro mosse. Le fasi del gioco scandiscono quelle del cammino che il cavaliere e i suoi compagni percorrono; è la loro vita, in realtà, il campo della sfida, e le alterne sorti della partita non fanno che simboleggiare il duello dell’uomo con il suo destino.

In una scena famosa, il senso di questo duello viene esplicitato. Antonius Block, in una pausa del viaggio, si è fermato davanti ad una chiesetta di campagna e vi è entrato.

 

Il cavaliere si è inginocchiato davanti a un piccolo altare. Intorno a lui vi è silenzio e buio. L’aria è fresca e stantia. Immagini di santi lo guardano dall’alto con occhi di pietra. Il volto di Cristo è rivolto in alto. Ha la bocca aperta come in un grido d’angoscia. Sulla trave del soffitto v’è l’immagine di un orribile demonio che sta spiando un misero essere umano. IL cavaliere ode un rumore dal confessionale e vi si accosta. Dietro la grata appare per un istante il volto della Morte, ma il cavaliere non lo vede.

Cavaliere: Voglio parlarti più sinceramente che posso, ma il mio cuore è vuoto.

La Morte non risponde.

Cavaliere:  Il vuoto è uno specchio rivolto verso il mio viso. In esso vedo me stesso e mi sento pieno di timore e di disgusto.

La Morte non risponde.

Cavaliere:  Per la mia indifferenza verso i miei simili mi sono isolato dalla loro compagnia. Ora vivo in un mondo di fantasmi. Sono prigioniero die miei sogni e delle mie fantasie.

Morte: eppure non vuoi morire.

Cavaliere:  Sì che voglio.

Morte: E che cosa aspetti?

Cavaliere:  Voglio conoscere.

Morte: Vuoi delle garanzie?

Cavaliere:  Chiamale come vuoi. E’ davvero così inconcepibile afferrare Dio con i sensi? Perché deve nascondersi in una nebbia di mezze promesse e d’invisibili miracoli?

La morte non risponde.

Cavaliere:  Come possiamo avere fede in coloro che credono, se non possiamo avere fede in noi stessi? Cosa accadrà a quelli di noi che vogliono credere né possono credere?

Il cavaliere tace in attesa d’una risposta, ma nessuno risponde.

Vi è completo silenzio.

Cavaliere:  Perché non posso uccidere Dio dentro di me? Perché Egli continua a vivere in questo modo doloroso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparmelo dal cuore? Perché, nonostante tutto, Egli è un’illusoria realtà ch’io posso scuotere da me? Mi ascolti?

Morte: ti ascolto.

Cavaliere: Io voglio la conoscenza, non la fede, non supposizioni, la conoscenza. Voglio che Dio tenda la sua mano verso di me, si riveli e mi parli.

Morte: Ma Egli rimane zitto.

Cavaliere: Lo chiamo nel buio, ma sembra come se non ci fosse nessuno.

Morte: Forse non c’è nessuno.

Cavaliere: Allora la vita è un atroce correre. Nessuno può vivere in vista della morte, sapendo che tutto è nulla.

Morte: La maggior parte della gente non riflette mai né sulla morte, né sulla futilità della vita.

Cavaliere: Ma un giorno si troveranno davanti all’ultimo momento della vita e guarderanno verse le tenebre.

Morte: E’ per questo che giochi a scacchi con la Morte?

Cavaliere: e’ un forte avversario, ma finora non ho perduto neanche un pezzo.

Morte: E come fai ad avere la meglio sulla Morte con il tuo gioco?

Cavaliere: Svolgo un’azione combinata col cavallo e l’alfiere, che la Morte non ha ancora scoperta. Alla prossima mossa lo attaccherò su un fianco e farò strage.

Morte: me ne ricorderò.

La Morte mostra per un attimo il suo volto dietro la griglia del confessionale scomparendo immediatamente.

Cavaliere: Mi hai ingannato! Ma ci ritroveremo, troverò un’altra tattica.

Morte: Ci ritroveremo alla locanda e continueremo la partita.

Il cavaliere alza la mano e la guarda alla luce che penetra dalla piccola finestra.

Cavaliere: Questa è la mia mano, posso muoverla, sentire il sangue che pulsa in essa. Il sole è ancora alto nel cielo ed io, Antonius Block, gioco a scacchi con la morte.

 

Ciò che accomuna la sorte del cavaliere di Bergman a quella di Gilgamesh è dunque il duello con la morte. La maggior parte degli uomini, certo, vi pensa di tanto in tanto, magari in occasione della scomparsa di un familiare, di un conoscente. Ma per chi vive immerso nell’esistenza anonima questo pensiero si presenta nella forma tranquillizzante di un si muore. Pochi hanno il coraggio di affrontare, in tutta la sua tremenda serietà, la verità che questi eventi crudamente ricordano, e cioè che io morirò. Come Gilgamesh, come Antonius Block ha fatto questa scoperta. Egli sa che non sono soltanto gli altri a morire.

Ma vi è qualcosa di più profondo. Per il cavaliere, come per il re di Uruk, la morte non è soltanto la fine della vita - un avvenimento che si verificherà in un futuro più o meno lontano. Essa getta fin d’ora la sua ombra sulla vita, ne fa risaltare meravigliosamente la bellezza, la dolcezza - la fine struttura della mano, il pulsare del sangue nelle vene, il sole che splende in cielo -, ma ne svela al tempo stesso la precarietà. La morte rivela che, sotto l’apparente sicurezza di ciò che costituisce il nostro mondo vitale - esperienze, amicizie, successi, sconfitte - sta il vuoto del nulla. In esso ogni cosa è destinata a cadere inesorabilmente.

Per questo Gilgamesh lascia la sua reggia, per questo Antonius Block chiede ancora tempo: essi non possono rassegnarsi ad accettare che “tutto sia nulla”, come dice il cavaliere alla Morte. L’eroe sumero cercava la salvezza in una mitica pianta della vita; il personaggio di Bergman nella conoscenza di Dio, che per lui è la risposta, il senso ultimo della vita. Ma la dimensione intellettuale, che qui affiora chiaramente, non deve far dimenticare che la posta in gioco è, in entrambi i casi, non la soluzione di un problema affrontato a tavolino, ma la salvezza.

Per questo la ricerca non si svolge nella riparata quiete di una biblioteca universitaria, ma prende le forme del viaggio, con le sue peripezie, i suoi incontri umani, le sue pause di distensione e le sue accelerazioni drammatiche. Una metafora, quella del viaggio, che è la più semplice e la più consueta per esprimere il travagliato vivere di ogni uomo sulla terra. E se alla fine anche il cavaliere, come Gilgamesh, perderà la sua partita - egli riceverà lo scacco matto prima di trovare quello che cercava - la sua ricerca rimane una possibilità per chiunque, nono volendo rassegnarsi alla futilità di una vita senza domande, voglia provare a giocare a scacchi con la Morte.

 

 

CONCLUSIONE

 

Siamo partiti dal sorriso ironico della gente nei confronti del filosofo. Abbiamo visto che esso è la difesa, più o meno consapevole, di un modo di vivere che si può quantificare, a seconda dei punti di vista, ‘sonno’ (Eraclito), ‘divertimento’ (Pascal), vita anonima fondata sul si (Heidegger). Ma abbiamo anche visto come sia impossibile all’uomo eludere fino in fondo il problema della morte e quello, ad esso legato, della vita. Da qui scaturisce, anche se in forma che non sono ancora propriamente filosofiche, la ricerca. Siamo, per così dire, alle soglie della filosofia.

Ora possiamo comprendere meglio che il filosofo non è un personaggio strano e un po’ ridicolo, specializzato in discorsi astrusi, come tante volte si crede. Il filosofo è dentro ciascun uomo, in quella parte di noi stessi che grida angosciata di fronte all’assurdo di una vita destinata a precipitare nel nulla.

Perciò la filosofia matura dentro di noi e scaturisce dal nostro intimo con tutta la forza di un atto supremamente umano, in cui vengono raccolti e trascinati tutto il dolore e tutta la gioia, tutta la speranza e tutta la povertà del nostro essere. Certo, vi è un modo di intendere la vita che contrappone drasticamente al filosofare. Se ‘vivere’ significa soltanto autoconservazione biologica, fondata sulla soddisfazione dei bisogni psicofisici, è chiaro che in esso non vi è posto per la ricerca filosofica.

Così pure, vi è modo di concepire la filosofia che la rende inconciliabile come la vita reale. Se ‘filosofare’ significa costruire teorie che prescindono dai problemi e dalle esigenze dell’uomo concreto, imitando il manzoniano don Ferrante, che morì di peste proprio dopo averne escluso l’esistenza, perché si dovrà scegliere tra vivere e filosofare.

Ma le vicende di Gilgamesh e di Antonius Block ci fanno intravedere la possibilità che la vera vita e la vera filosofia non solo possano coesistere, ma crescano l’una nell’altra, bisognose l’una dell’altra per essere ciascuna veramente se stessa. Sono le loro caricature che si escludono: la vita della bestia e la filosofia dell’angelo. Per riunirle basta semplicemente riportarle alla loro reale dimensione umana. Perché

l’uomo non è né un angelo né una bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia. (Pascal, Pensieri, n° 358)

La filosofia nasce da questa stupefacente complessità, dove grandezza e miseria si intrecciano indissolubilmente nell’unica realtà della persona.

E’ pericoloso mostrar troppo all’uomo quanto è simile alla bestia, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è ancora pericoloso mostrargli troppo la sua grandezza senza la sua bassezza. E’ ancor più pericoloso lasciargli ignorare l’una e l’altra. (Pascal, Pensieri, n° 418)

Proprio perché non è né un angelo e non è una bestia, l’uomo avverte il bisogno di mettersi alla ricerca di una verità che gli permetta di decifrare se stesso e la sua vita - far cioè filosofia. Se fosse un angelo non avrebbe dubbi, perché si conoscerebbe già. Se fosse una bestia non ne avrebbe egualmente perché il suo mistero non lo inquieterebbe. Ma egli non è né l’uno né l’altra:

Se si vanta, l’abbasso; se s’abbassa, lo vanto; lo contraddico sempre fino a che comprenda che è un mostro incomprensibile (Pascal, Pensieri, n° 420)

Per questo - perché è un “mostro incomprensibile” - l’uomo è un filosofo. E fin da ora possiamo sapere che questo non è per lui un’evasione, ma il solo modo di accettare la sua umanità onestamente, senza facili ottimismi, senza altrettanto facili pessimismi, soprattutto senza cedere alla tentazione di stordirsi nel ‘divertimento’:

 Biasimo egualmente sia quelli che si mettono a lodare l’uomo, sia quelli che lo biasimano per partito preso, sia quelli che preferiscono divertirsi; non posso approvare se non quelli che cercano gemendo. (Pascal, Pensieri, n° 4231)