Il problema dell'unità d'Italia 

  da Mazzini a Gioberti 

 

Mazzini fa uscire l’ideale nazionale italiano dall’ambiente delle cospirazioni e lo trasforma in fatto religioso

 

I moti del '31 avevano concluso in un certo senso un'epoca storica in Italia .

Se pure essi avevano avuto una base sociale più larga che non quelli del 1820-21, appariva al tempo stesso chiaro che il vecchio movimento settario non era stato capace ne di guidare i movimenti rivoluzionari con energia ne di elaborare un programma in grado di coinvolgere gli strati popolari. Dal canto suo l'assetto degli Stati italiani si rivelava sempre più anacronistico e incapace di soddisfare le stesse esigenze di rinnovamento che maturavano negli strati moderati della borghesia e dell’aristocrazia liberale, sotto l’influenza dell’evoluzione liberale della Inghilterra e della Francia.

In questa situazione va collocata da un lato la crisi della Carboneria, universalmente screditata, e dall'altro la successiva divisione delle forze che premevano per il rinnovamento in due ali fondamentali: la corrente mazziniana, che intese superare la Carboneria con un programma di rivoluzione nazionale fondata sull'iniziativa popolare, e le correnti moderate, le quali puntarono sull'iniziativa della classe dirigente e sul riformismo dei governi. Ma e necessario tener subito presente a questo proposito che sia il concetto mazziniano di iniziativa popolare che quello moderato di iniziativa dall'alto rimasero condizionati in Italia dalla quasi assenza delle due forze sociali fondamentali che caratterizzavano il mondo o politico e sociale della Gran Bretagna e della Francia: il proletariato industriale e la grande borghesia capitalistica.

Giuseppe Mazzini era nato nel 1805 a Genova. La madre, Maria Rossi Drago, di spiriti patriottici assai vivi e di severa moralità di stampo giansenistico (abbastanza diffusa negli ambienti borghesi genovesi), esercitò una profonda influenza sul figlio, di cui approvò sempre l'attività di cospiratore.

Nel 1821 Mazzini assistette, e fu un'impressione profonda, alla scena dell'imbarco degli esuli condannati dopo il fallimento dei moti nel regno sardo. Durante il periodo universitario (si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza a Genova; laureandosi nel 1827) divenne un romantico liberale, convinto oppositore del retrivo governo sabaudo. Nel 1827 si iscrisse alla Carboneria, nutrendo l'illusione che questa potesse rinnovarsi grazie anche all'immissione di nuovi quadri, come i fratelli Giovanni e Agostino Ruffini. Alla sua attività nella Carboneria pose fine l'arresto, avvenuto nel novembre 1830 in seguito a una delazione. Dopo essere stato rinchiuso nel forte di Savona per circa tre mesi, data la mancanza di solidi indizi contro di lui, venne liberato ma costretto dalle autorità alla scelta fra il confino e l’esilio. Scelto l’esilio, Mazzini, dopo vari e vani progetti di intervento a favore degli insorti del 1831, si stabilì a Marsiglia, in Francia. Mazzini subì una serie di influenze, che risultarono decisive per l’elaborazione del programma, steso nel giungo 1831, di una nuova organizzazione, destinata nelle intenzioni del uso fondatore a superare i limiti, giudicati ormai inguaribili, della vecchia Carboneria e in genere delle organizzazioni settarie: la Giovine Italia. Anzitutto, dal contatto, anche epistolare, con Buonarroti Mazzini venne orientato in senso democratico-giacobino e spinto a un punto di vista intransigentemente repubblicano-unitario; inoltre, per influenza del sansimonismo, il suo repubblicanesimo si colorì di utopismo sociale; infine, fu suggestionato dalle teorie del ‘progresso’ elaborate da Cousin e da Guizot . In particolare lo colpi la teoria di Guizot relativa al primato che la Francia aveva esercitato in Europa, che egli inserì nel suo sistema di pensiero capovolgendola e giungendo a sostenere, per contro, la necessità di una nuova ‘missione’ della nazione italiana nel mondo contemporaneo.

Nella sua Istruzione generale per gli affratellati nella ‘Giovine Italia’ Mazzini elaborò un programma di azione politica che nei suoi propositi doveva dunque insieme segnare il netto superamento sia dei metodi della Carboneria sia dell'ideologia del vecchio movimento rivoluzionario italiano. Mazzini poneva il programma della Giovine Italia sotto la bandiera dei seguenti grandi principi: Libertà, Eguaglianza, Umanità, Indipendenza, Unità. La legge comune degli affiliati doveva essere quella del Progresso e del Dovere  l'unica in grado di conferire alla rivoluzione la fiducia nei suoi destini e una regola interiore ai suoi militanti.

Quanto ai mezzi per conseguire lo scopo dell'unità repubblicana, Mazzini poneva al centro la propaganda educativa e l'insurrezione. La bandiera della Giovine Italia era il tricolore: bianco, rosso, verde. A1 particolarismo organizzativo delle sette, Mazzini contrappose una organizzazione a livello nazionale; alla segretezza degli obiettivi custoditi dai capi settari l'agitazione ideologica che deve penetrare nel popolo, fatto oggetto di una pedagogia politica; alle insurrezioni locali, l'idea di una rivoluzione nazionale e dell'unità italiana.

Nel periodo successivo alla fondazione della Giovine Italia  Mazzini andò chiarendo in un sistema sostanzialmente coerente di pensiero i suoi intendimenti.

La questione fondamentale era legata alla definizione di chi fosse   ‘popolo’ poiché non poteva non derivare una strategia rivoluzionaria profondamente diversa a seconda che il popolo fosse costituito dalle masse lavoratrici oppure dall'insieme tutte le categorie sociali disposte ad accettare il programma del nazionalismo democratico. Partito originariamente da una concezione che sotto l'influenza buonarottiana tendeva a identificare popolo e masse lavoratrici, Mazzini corresse dopo pochi anni il suo orientamento nella  direzione del secondo significato. Il che ebbe una conseguenza fondamentale, poiché portò il mazzinianesimo a qualificarsi come una dottrina il cui asse era costituito da un progetto di rivoluzione essenzialmente politica, che rinviava la soluzione della ‘questione sociale’ al periodo successivo al trionfo della rivoluzione nazionale.

Mazzini, preoccupato di assicurare rapporti di reciproco rispetto fra gli individui e fra le classi, venne portato, in contrasto con la tradizione della rivoluzione francese accusata di avere aperto le porte al conflitto degli interessi e all'esaltazione unilaterale dei diritti, a mettere in primo piano il senso del dovere, che solo poteva dare un fondamento e un limite al diritto. Ora come sul diritto deve avere la precedenza il dovere, così, nella sfera internazionale, 1 Umanità deve appoggiare sul rispetto reciproco delle sue cellule fondamentali: le nazioni. Di qui la necessità che quelle nazioni che non sono riconosciute tali e sono oppresse intraprendano la lotta rivoluzionaria per la loro liberazione.

Ma chi regola le vicende generali della storia ed e garante della verità delle lotte nazionali che il popolo deve condurre? Mazzini, imbevuto di cultura romantica, risponde che la legge dell’Umanità è data da Dio, il quale non è da lui concepito nei termini trascendenti della religione cristiana, ma come la forza immanente e il principio etico superiore che presiede alle virtù dei singoli e delle nazione e che trova nella storia la sua rivelazione e nel popolo il suo strumento attuale di progresso.

Mazzini risolse la questione del rapporto fra la nazione italiana e l'Umanità sostenendo che Dio aveva affidato all'Italia una ‘missione’. Questa missione consisteva nella realizzazione di un disegno che attribuiva alla terza Roma (dopo la Roma dei Cesari, che aveva unificato politicamente il mondo antico, e dopo la Roma dei papi, che aveva unificato sotto la religione cristiana il mondo del medioevo) il compito di farsi promotrice nel mondo di una terza unificazione, quella della fratellanza e dell'associazione, che “cancellerà col suo dito potente i1 simbolo del Medioevo, e sostituirà l'unità sociale alla vecchia unità spirituale”.

La Giovine Italia doveva, negli intendimenti mazziniani, diventare lo strumento per una riscossa morale e civile dello stesso carattere italiano piegato dalla tradizione conformistica, attraverso l'unità di Pensiero e Azione.

Il programma mazziniano, avvolto in formule ispirate a un misticismo di stampo romantico, era un tipico programma democratico, nato in un periodo storico quale quello immediatamente seguente il 1830-31, allorquando nelle file della democrazia europea era convinzione generale che entro breve tempo l’Europa sarebbe stata scossa da una nuova e più forte ondata rivoluzionaria. Mazzini riteneva che l'insurrezione popolare avrebbe dovuto essere il mezzo essenziale per ottenere la conquista dell'unita nazionale su base democratica. Ma il popolo, nella stragrande maggioranza, era in Italia costituito da contadini che non potevano essere raggiunti da chi non legasse la soluzione della questione nazionale alla soluzione dei loro interessi concreti e in particolare alla questione agraria. Su questo piano Mazzini non elaborò alcun programma concreto, con risultato di perpetuare la soggezione delle masse contadine alle autorità politiche e religiose tradizionali. In questo modo il piano dell'insurrezione popolare a fin dall'origine destinato all'insuccesso; e non valse a correggere il suo limite impostazione l'adesione al programma mazziniano  di limitati settori degli artigiani e degli operai delle città.

Formato un nucleo di aderenti alla Giovine Italia in mezzo all'emigrazione, Mazzini si diede ad allargare la rete organizzativa in Italia, specie a Genova e nell’Italia centrale. Nel 1832 venne fondato e fatto circolare clandestinamente periodico La Giovine Italia. In particolare Mazzini cerco di far penetrare propria propaganda nelle file dell'esercito sardo, in vista di un'insurrezione e avrebbe dovuto far perno sui reggimenti di artiglieria di stanza a Genova e Alessandria .

Ma la polizia di Carlo Alberto, salito sul trono nel 1831, era particolarmente vigile. Tanto più dopo che Mazzini, vuoi per tentare una carta rischiosa, vuoi per sfatare definitivamente il mito di un Carlo Alberto sostenitore del rinnovamento nazionale, aveva diretto al sovrano, subito dopo la sua ascesa al trono, la lettera in cui lo invitava a mettersi a capo del risorgimento italiano, ottenendone in cambio un’implacabile ostilità. Le fila della cospirazione mazziniana vennero scoperte. E nel giugno 1833 dodici cospiratori furono giustiziati, mentre centinaia di sospetti si rifugiarono all’estero. Lo stesso Mazzini fu condannato a morte in  contumacia. Due cospiratori, fra cui l'intimo amico di Mazzini, Jacopo Ruffini, si uccisero in carcere. La repressione venne condotta sotto la personale sorveglianza del re. Anche il cappellano di questo, Vincenzo Gioberti, sospetto di essere  filomazziniano, andò in esilio.

Nonostante la repressione avesse messo in piena crisi l'organizzazione nel regno sardo, Mazzini riprese a ritessere le fila in vista di una nuova insurrezione, che avrebbe dovuto accendersi sotto la spinta di una spedizione che, attraverso la Savoia era destinata a penetrare in Piemonte e di una rivolta a Genova fra i marinai della flotta militare. Anche questa fallì completamente sia in Savoia che a Genova. Nel tentativo di sollevazione dei marinai della flotta venne coinvolto Giuseppe Garibaldi, che fu condannato a morte in contumacia.

Garibaldi, nato a Nizza nel 1807 dopo aver servito nella marina civile ed essere giunto al grado di capitano convertitosi agli ideali della Giovine Italia, si era arruolato nella marina militare per svolgervi propaganda rivoluzionaria. Dopo il fallimento del moto di Genova emigrò nell'America Latina; e qui combatté in terra e in mare in una serie di  guerre  distinguendosi particolarmente nella difesa della repubblica di Montevideo contro il dittatore dell'Argentina Rosas. Fu in queste guerre americane che Garibaldi poté rivelare quel talento di comandante popolare, che era destinato a rifulgere più tardi nelle guerre risorgimentali.

Il bilancio dell’azione mazziniana si chiudeva con una grave perdita di prestigio del capo rivoluzionario. La rete cospirativa si trovava scompaginata dalla repressione. Mazzini rimase sempre più isolato, mentre la repressione colpiva. Nel 1835 nel Lombardo-Veneto si ebbero venti condanne a morte, poi mutate in pene detentive. In Toscana venne colpita sia la rete mazziniana che quella buonarrotiana. Fra il 1831 e il 1833 tentativi di cospirazione e insurrezione di ispirazione mazziniana vennero sanguinosamente stroncati nel Mezzogiorno.

Nel 1834 Mazzini si trasferì in Svizzera. Nell'impossibilità di agire in direzione dell'Italia, con un ristretto gruppo di esuli italiani, polacchi e tedeschi, fondò la Giovane Europa nel 1834,  basata sui principi di solidarietà fra le nazioni, e successivamente la Giovane Svizzera con obiettivi di rinnovamento democratico interno . Ma simili iniziative non andavano oltre l'affermazione di principi generali, e non potevano sopperire alla crisi reale dell'azione in Italia. Fu in queste condizioni che il campo rivoluzionario italiano attraverso una profonda crisi politica. I risultati pratici, così scarsi politicamente eppure tanto costosi in vite umane e in dispendio di energie non erano tali da mettere in discussione tutto il senso dell’azione mazziniana? Aveva egli il diritto umano di sacrificare vite e destini?

In questa quella che è passata alla storia come la ‘tempesta del dubbio’.  Mazzini da questa crisi convinto che, nonostante ogni  sacrificio, le ragioni della rivoluzione nazionale italiana dovevano essere affermate al di là d'ogni altra considerazione e di qualsiasi insuccesso contingente. Quando, nel gennaio 1837, egli giunse in Inghilterra, dopo essere stato colpito da un decreto di espulsione sollecitato dalla Francia, la crisi era superata.

In Inghilterra Mazzini attraverso momenti di gravi difficoltà materiali. Visse per un certo tempo quasi in miseria. Dopo un periodo di isolamento politico, nell’aprile 1840, stabiliti rapporti con esuli italiani nel mondo, ricostituì, su una base piuttosto limitata, la Giovine Italia. In Inghilterra, venuto a contatto con il movimento operaio moderno, egli acquisì un nuovo senso dell'importanza della questione sociale, tanto che fondò, come sezione della Giovine Italia, l'Unione degli operai italiani col fine di promuovere un agitazione in mezzo ai lavoratori italiani emigrati; ma si trattava per lui pur sempre di dare una base più larga all'azione primaria in favore della liberazione nazionale.

Una nuova disfatta politica fu per Mazzini il fallimento nel 1844 della spedizione in Calabria tentata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della marina imperiale austriaca legatisi alla Giovine Italia. Costoro, sulla base di un’errata valutazione delle possibilità insurrezionali esistenti nel Mezzogiorno, e nonostante Mazzini avesse cercato di trattenerli, nel giugno sbarcarono convinti di poter sollevare la popolazione contadina; una volta sbarcati, rimasero isolati, caddero prigionieri della gendarmeria borbonica, e vennero quindi fucilati con sette compagni. L'impressione nell'opinione pubblica italiana fu enorme e, per quanto non fosse responsabile dell'azione dei due fratelli, i quali avevano agito autonomamente, Mazzini, che anzi si preoccupava di frenare le iniziative azzardate, venne sottoposto ad accuse di irresponsabilità e di cinismo. Era suonata l'ora del riformismo moderato e legalitario.

 

   

Contro l’insurrezione popolare voluta dal Mazzini Gioberti propone una confederazioni di stati presieduta dal papa

 

L'ideologia mazziniana, che esaltava l'insurrezione popolare, con il suo progressismo umanitario ed antidogmatico, era un'ideologia scomoda: non sarebbe mai riuscita a convincere quegli strati della borghesia, ed erano i più numerosi ed influenti, che avrebbero voluto un'unificazione politica ed economica dell'Italia, ma senza insurrezioni, senza lotte di classe, senza rivoluzione e possibilmente d'accordo con la Chiesa. V'era proprio necessità che per unificare il paese si dovesse combattere contro preti e il papa, che si dovesse scendere nelle piazze, eccitare il popolo e decapitare i principi? E d'altra parte, anche volendo queste cose, dove trovare le forze per fare un così radicale cambiamento? Le campagne erano nella mani dei preti, il popolo italiano era religioso, i principi erano protetti dall'Austria e l'Austria aveva un esercito pronto a intervenire. Affidarsi all'iniziativa di pochi generosi? Ma si era vista la fine che avevano fatto i moti mazziniani!

 I buoni italiani - scriveva l'abate Vincenzo Gioberti al Massari nel 1841 - possono secondare, aiutare, proseguire il primo moto della redenzione patria, ma non cominciarlo, salvo uno di quei casi straordinari che non entrano nel giro dei probabili. A chi dunque sta di pigliare le mosse?

 La domanda non era retorica. Ora, per realizzare l'unificazione dei mercati regionali italiani corrispondenti ad altrettanti Stati dinastici, per uscire dalla cinta della protezione austriaca e per fare dell'Italia un paese moderno, occorreva che il sentimento nazionale dei pochi si traducesse in un fatto politico possibile, in una realtà accettabile e rispettabile: Vincenzo Gioberti (1801-52), torinese, aveva conosciuto la Giovine Italia, ne aveva fatto parte e perciò aveva dovuto recarsi in esilio; prima a Parigi, poi a Bruxelles. Aveva meditato a lungo sull'esperienza mazziniana e s'era andato sempre più convincendo che la macchina messa su da Mazzini non avrebbe operato il miracolo. Lo sbaglio dell'esule genovese era forse, secondo Gioberti, di essere partito troppo dall'alto, di aver cercato fuori dalla realtà sociale italiana una religione che non era popolare, quando poi questa religione c'era in Italia, ed era quella della Chiesa cattolica.

Una volta iniziato il processo al mazzinianesimo, Gioberti lo condusse spregiudicatamente avanti. Insomma, Mazzini aveva sbagliato perché‚ non aveva fatto il calcolo realistico delle forze che avrebbero potuto essere cointeressate al movimento nazionale. Invece di catturarle, le aveva spaventate. Dov'erano queste forze? Ma era l'uovo di Colombo: i principi stessi.

Bastava, dunque, che i principi dei vari stati italiani costituissero una confederazione presieduta dal papa. Ma v'era un interesse dei principi a confederarsi, a stringere le loro forze per unificare l'Italia? Secondo Gioberti, questo interesse esisteva: unendo le loro forze i principi con alla testa il papa, avrebbero potuto difendersi meglio dallo straniero, avrebbero rimosso gli ostacoli rappresentati dalle dogane e dalla diversità del le monete favorendo così lo sviluppo dei commerci e delle industrie. Aggiungeva quindi significativamente il Gioberti:

 Gioverebbe loro il rimuovere i pericoli delle rivoluzioni e l'uscire da quella inquietudine che ora li travaglia, concedendo ai popoli uno statuto civile, che appagherebbe le brame dei più ed assicurerebbe ai diritti di ciascun principe la tutela del concorso reciproco.

 Ecco il grande vantaggio, secondo Gioberti, rappresentato dal suo progetto di confederare i principi: l'unione del paese si sarebbe fatta rimuovendo "i pericoli della rivoluzione", cioè un'insurrezione mazziniana delle sette, delle sommosse popolari. Era insomma, un'unione che conservava le dinastie regnanti, che salvaguardava il sistema vigente e l'ordine costituito; un'unione indolore senza rivoluzioni, sociologicamente fondata, per dirla con le parole di Gioberti, "con le qualità ordinarie degli uomini del (suo) tempo".

Ma c’era il problema dell’Austria. Il Gioberti del 1841 pensava che i principi non potessero fare la guerra all’Austria trovasse più vantaggioso un giorno interessarsi allo smembramento dell’impero ottomano e qui indirizzare le sue mire di espansione territoriale piuttosto che rimanere in Italia.

Il disegno del Gioberti, confrontato con quello del Mazzini, appariva più lucido, più spregiudicato e realistico. Non ci sono appelli alla riforma morale non si chiamano in causa né Dio né l’umanità, il popolo resta tranquillo. La via dell'indipendenza italiana sembrava facile, conveniente e adattabile alle qualità delle classi medie italiane, compreso il clero. Il punto debole era rappresentato dal problema della Chiesa. Non era la Chiesa un ostacolo a ogni progetto di unificazione italiana? Certa tradizione storiografica italiana, da Machiavelli a Giannone, non aveva sempre sostenuto che i papi erano stati i nemici dell'Italia? Non era forse vero che la Chiesa aveva sempre preferito far ricorso alle armi dello straniero, piuttosto di perdere i1  suo dominio temporale a vantaggio dell'unità nazionale? Non era accaduto così dall'epoca dei longobardi quando il papa chiamò i Franchi per cacciare Desiderio? Questa era la tesi della tradizione culturale che si definiva ‘ghibellina’, presente anche nell'ideologia mazziniana.

In soccorso a Gioberti veniva però tutta un'altra tradizione culturale,  egualmente robusta, che aveva sostenuto il contrario: la Chiesa aveva salvato l'Italia dall'imbarbarimento, aveva nei secoli bui rappresentato l'unico faro di civiltà, l'unica garanzia di riscatto dall'oppressione dalla schiavitù delle armi straniere. Erano le tesi della letteratura della Restaurazione da Joseph de Maistre a Lamennais, ravvivate pero da una consapevolezza storica che traspariva dagli scritti di Manzoni sulla questione longobarda, dalla Storia d'Italia sotto i barbari di Cesare Balbo uscita nel 1830, dalle opere del napoletano Carlo Troya, a cominciare dalla Storia d'Italia nel Medio Evo, di cui comparve nel 1839 il primo volume L'esplorazione degli archivi, l'erudizione storica, la lettura dei codici concorrevano a sostenere la tesi di questa scuola, che fu detta neoguelfa o anche, più generalmente, cattolico-liberale, per la difesa che fece del ruolo positivo svolto dalla Chiesa nella storia italiana ed europea.

Gioberti fece propria la tesi neoguelfa, la trasferì dal campo degli studi e del puro dibattito culturale sul terreno politico, ne fece un'ideologia. I1 neoguelfismo diventava la base del suo disegno politico, dava ad esso una dignità e una forza, che il calcolo realistico sulle ‘qualità ordinarie’ degli italiani non aveva, in una parola trasformava la riflessione politica giobertiana, in una alternativa all'idea della ‘ rivoluzione ‘. I1 neoguelfismo voleva dimostrare non solo come la tradizione cattolica non fosse alleata alla reazione e poteva costituire il fattore risolutivo del processo di unificazione, ma anche che esisteva una filosofia politica italiana originale e che, pertanto, non si aveva bisogno di ricorrere ai principi dell'illuminismo e della rivoluzione francese. Bastava leggere bene nella tradizione e nella storia politica italiana per scoprirvi la formula idonea per unire l'Italia, liberandola al tempo stesso dal pericolo del progressismo radicale e giacobino. Tutto ciò Vincenzo Gioberti sostenne nell'opera Del primato morale e civile degli italiani, comparso a Bruxelles nel 1843, un'opera fondamentale, che ebbe un successo strepitoso. I1 Primato, con le Speranze d'Italia di Cesare Balbo (1844)[1], ebbe un'influenza grandissima negli orientamenti di quella borghesia moderata, che tenne nelle proprie mani la causa nazionale anche dopo il fallimento dei moti e della guerra del 1848.

In concreto, dalle pagine del ‘Primato’ discendeva la proposta che il papa si facesse promotore delle riforme nel suo regno, dando l'esempio ai principi, e che i principi italiani si confederassero in una lega sotto la presidenza del papa.

La proposta del Gioberti non riuscì a conquistare la Chiesa, anche se essa incontrò favore in molta parte del clero. Decisa fu l'opposizione dei gesuiti, contro cui, del resto, Gioberti si scagliò con particolare veemenza in un'altra opera, Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani (1845). Il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, fratello di Massimo, (l'autore del romanzo La disfida di Barletta) respinse l’idea che la Chiesa e il papa potessero essere messi al servizio di una filosofia nazionale o di un partito politico, per elevati che fossero i loro scopi La Chiesa, per Taparelli, non poteva identificarsi con nessuna dinastia e con nessuna nazionalità, proprio per il suo carattere universale e pastorale La polemica duro a lungo. La questione del rapporto fra Chiesa e rivoluzione nazionale tormentò Pio IX: gli effetti di essa si risentirono a lungo nella storia contemporanea italiana, anche dopo l'unificazione nazionale[2].

 

 

Giuseppe Ferrari

 

Una serrata critica alle tesi del neoguelfismo fu redatta da Giuseppe   Ferrari (1811- 1876), il quale accusava il Gioberti di voler condizionare la prospettiva della liberazione nazionale a una tradizione sostanzialmente reazionaria, come quella del papato. Gli sembrava assurda l'idea di una filosofia politica, che negasse la validità del patrimonio della rivoluzione francese. Il rinnovamento italiano, secondo Ferrari, poteva realizzarsi solo accettando la  guida della Francia e laicizzando la nostra cultura politica[3].

 

 

Carlo Cattaneo

 

Una attenta considerazione merita il federalismo di Carlo Cattaneo  (1801-1869). Ciò che era il papato nella storiografia neoguelfa, erano i comuni nell'opera di Cattaneo. La storia medievale aveva dimostrato che la decadenza nella nostra storia era incominciata quando si era perso il senso del municipio, quando si era cioè perduto il senso dell'autogoverno locale e le città si erano imbarbarite. Spirito concreto e positivo, Cattaneo non si sentiva attratto ne dal misticismo mazziniano, ancorché si definisse repubblicano, ne dal neoguelfismo giobertiano. Egli fu un convinto assertore del progresso scientifico e dello sviluppo industriale; fu animato dall'idea che il vero problema politico fosse quello di formare la coscienza degli italiani all’autogoverno e che le riforme dovessero essere graduali, secondo il concetto della tradizione moderata.

Dopo il fallimento  dei moti del '48, accentuò il suo riformismo e si  dichiarò per il federalismo. Sospettoso dei Savoia, egli sogno una federazione di popoli autonomi nell'ambito dell'impero austriaco e ritenne che le riforme proposte dovessero dare l’avvio ad a federazione di tutte le regioni italiane.

 

 

Conclusioni

 

Nell’insieme, tutte queste correnti politico-culturali, dalla mazziniana alla neoguelfa alla federalista democratica, rispecchiavano sentimenti, mentalità e aspirazioni dei ceti medi, per i quali la lotta per l’indipendenza diveniva sempre più una premessa necessaria per la loro espansione. Tutte queste tendenze rientravano nella storia più vasta del nazionalismo, che variamente si alimentò della letteratura romantica. Esse riflettevano sul piano politico interessi diversi: quelli della borghesia radicale, che mirava a realizzare, insieme con l’unità nazionale, anche una riforma democratica dello stato; quelli della borghesia moderata, che aveva per scopo anche l’unità nazionale, ma in modo da non turbare l’ordine internazionale garantito dalle grandi potenze.

Il limite evidente di queste tendenze fu però il loro carattere prevalente di ideologia urbana, incapace di legarsi ai problemi del mondo contadino.

horizontal rule

[1]  L'opera di Balbo usci a Parigi nel 1844. D'accordo con Gioberti nel ravvisare nella Chiesa un faro di civiltà considerava che la confederazione dei principi con il papa alla testa non potesse attuarsi fino a quando l'Austria dominava il Lombardo-Veneto. Il destino dell’Austria era di fungere da antemurale, da baluardo della cristianità contro la pressione russa: L'Austria, alla prima occasione, poteva ingrandirsi a spese dell'impero ottomano, rafforzare la sua funzione antirussa e lasciare l'Italia. Una volta distratta l'Austria dalla  penisola, il Piemonte si sarebbe unito al Lombardo-Veneto formando un unico regno. Poste queste premesse, si sarebbe potuto parlare di confederazione. Lo schema era ancora, sostanzialmente, quello moderato del Gioberti: elementi nuovi erano la valorizzazione della funzione storica dell'impero asburgico e il ruolo di promozione assegnato al Piemonte nel processo graduale che avrebbe condotto all'unificazione italiana. 

[2] Per avere il quadro completo delle correnti patriottiche italiane prima del 1848, occorre ricordare anche quelle che hanno avuto una singolare rilevanza nella storia della cultura politica e religiosa del nostro Risorgimento. Anzitutto va ricordata l'opera del roveretano Antonio Rosmini (1797-1855), Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, uscita nel 1848, dove si affrontano i problemi di una riforma religiosa e giuridica della Chiesa: ritorno al metodo della prima cristianità, che eleggeva i vescovi; restituzione ai fedeli dei poteri di controllo sull'amministrazione dei beni ecclesiastici; le rendite di questi beni dovevano essere destinate a finalità caritative; adottare l'italiano nella liturgia. Sui temi politici invece indugio il dalmata Niccolò Tommaseo (1802-1874) nell’opera Dell’Italia (1835), dove si auspicava la liberazione dell'Italia per iniziativa popolare e in nome di un cattolicesimo tornato alle origini evangeliche: insomma, lo schema giobertiano democratizzato. Queste posizioni derivavano tutte dal pensiero del cattolicesimo liberale francese, da Montalambert a Lacordaire; soprattutto dalla formula Dio e popolo dell'ultima fase evolutiva di Lamennais, il quale fu amicissimo del Tommaseo. Chi, invece, insistette sull’importanza delle riforme costituzionali all'interno degli stati fu Massimo d'Azeglio nell'opuscolo Degli ultimi casi di Romagna, che prese lo spunto dai moti scoppiati in Romagna nel settembre del 1845. Sulla stessa linea di questo moderatismo riformatore troviamo Giacomo Durando (1807-1894) con il volume Della nazionalità italiana (1846). 

[3] Altri scrittori che contestarono la validità dello schema giobertiano e che adottarono i giudizi della tradizione ghibellina sul papato furono G. B. Nicolini, M. Amari, F. D. Guerrazzi.