Scuola, la retromarcia sul digitale

di Corrado Zunino

fonte: La Repubblica, 12 febbraio 2014

 In Italia arranchiamo sulla banda larga in classe e l’acquisto delle costose (e da sostituire dopo pochi anni) lavagne digitali, ma nel mondo si assiste a una larga retromarcia sul digitale a scuola, il digitale come strumento didattico, il digitale come supporto necessario. Dove la scuola digitale è stata ampiamente sperimentata  –  in Inghilterra, in Argentina, in quella Corea del Sud che offre gli studenti migliori, secondo i risultati dei test Ocse-Pisa  –  si torna indietro: si sono dimostrati, qui, legami tra l’utilizzo continuo del personal computer e l’abbassamento del rendimento scolastico.

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La follia e la sapienza: il viaggio dei greci ai confini dell’anima

di Eva Cantarella

 Fonte: Corriere della Sera 5 maggio 2010

 Come scrive Eraclito in un suo famoso frammento: «Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai». Per i Greci la follia fu appunto un mezzo per esplorare questi confini. Ma la nozione di follia (manìa) andava oltre la dimensione della patologia. «La follia è tanto superiore alla sapienza (scriveva Platone nel Fedro) in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini». Non tutte le forme di follia, s’intende: solo la follia che giunge «per dono divino». Ma qual è questa «divina follia»?

Platone lo spiega poco dopo: quella del poeta ispirato che scopre in sé improvvise energie creative, quella del profeta che spinge lo sguardo nell’invisibile, quella di Dioniso che consente di entrare in uno stato mentale che i Greci definivano estasi, in cui un uomo percepisce di avere «un dio dentro di sé», e infine («la migliore di tutte» precisa Platone) la follia di Amore, che porta l’anima vicino alla sua vera natura. Così, per i Greci la follia assumeva una duplice faccia: da un lato malattia della mente, dall’altro potenziamento della personalità. Per i Greci del V secolo a.C. era un’ alterazione della psiche. Ma il significato di psyche era in origine diverso. In Omero, la psiche era il soffio vitale che al momento della morte abbandonava il cadavere. La concezione di psiche come «anima» o «mente» si sviluppò a seguito di un’ evoluzione alla quale contribuirono correnti religiose e saperi laici (in particolare filosofia e medicina). Alla fine, la psiche divenne la realtà interiore in cui si concentra la vera identità di un individuo: una concezione che da Platone passa al Cristianesimo. Nella Grecia arcaica l’alterazione della coscienza aveva uno spazio importante nella dimensione della religione, all’ interno di istituzioni come il santuario di Apollo a Delfi, ove si praticava la divinazione estatica; o nei rituali di trance, di cui il culto di Dioniso rappresenta solo l’aspetto più noto e impressionante. Fu la cultura del secolo illuminista di Pericle e di Socrate a separare dalla sfera della conoscenza una serie di esperienze di confine quali la possessione, l’estasi e altri stati subliminali, per relegarle nel limbo delle manifestazioni irrazionali. A partire da allora, ragione e follia iniziarono a essere considerati aspetti alternativi della personalità: ogni uomo – scrive Platone – combatte una guerra contro se stesso e spesso a perdere è la ragione. Per i Greci, però, la follia non era solo il sonno della ragione: era anche un mezzo per esplorare le manifestazioni estreme e inquietanti della natura umana. Tutto ciò che di più insondabile e oscuro si agita nell’ anima di un essere umano è tra i temi centrali della tragedia: il dramma di Eracle o di Medea che uccidono i figli pur amandoli, la violenza autodistruttiva di Aiace, i fantasmi di Oreste e di altri personaggi ai quali si può applicare la frase di Sofocle: «Un bene sembra un male a un uomo la cui mente è accecata da un dio». A differenza di quanto sarebbe accaduto nella società europea moderna, la Grecia non conobbe la  reclusione dei folli: i greci seppero convivere con loro, elaborando forme di controllo dell’ alienazione mentale all’ interno della società, attraverso la reintegrazione e non l’esclusione. L’organizzazione logica, scientifica ed etica dell’ esperienza – la gloria della Grecia – nacque per confronto col mondo  ella non ragione. Dal mito al logos: questa è una delle tradizionali chiavi di lettura della civiltà greca, ma si tratta di una semplificazione. In realtà mito e logos sono intrecciati lungo il percorso di quella cultura, come pure ragione e follia. Sono profonde le fratture nella storia della follia in Occidente, sono molte e molto interessanti le cose che racconta Giulio Guidorizzi in questo bel libro, il primo in italiano a tracciare una storia della follia nel mondo greco (Ai confini dell’ anima. I greci e la follia, Raffaello Cortina editore, pp. 225, 19): un libro che stimola importanti riflessioni non solo sull’ antichità, ma anche sul presente, su di noi e il nostro rapporto con la follia.

L. Einaudi (1913) – LA CRISI SCOLASTICA E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI

(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).

… Da vent’anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all’ufficio, seduti ad emarginare pratiche.
A costoro può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l’insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell’orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l’orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d’oggi in Italia.
Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l’esponente e nello stesso tempo un’aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media …”.

http://www.archive.org/stream/gliidealidiuneco00eina/gliidealidiuneco00eina_djvu.txt

Per un made in Italy dell’istruzione

30/12/2011
Retescuole
Claudisa Fanti

fonte: FLC – CGIL

Mentre il governo in carica si affanna per riportarci almeno a galla, noi della scuola non sappiamo quale sia il nostro destino e quello delle nostre fatiche per reggere l’impatto del tempo tiranno in cui viviamo.

Eppure a qualcuno di noi piace ancora pensare a un futuro auspicabile nel quale sarà possibile insegnare e apprendere nel rispetto di ogni singolarità, umanità. Un rispetto che tenga conto dei volti delle persone che ci guarderanno dai banchi, nei corridoi spogli, nelle aule, nei laboratori. Ecco, mi piacerebbe che quando si scrive o ragiona di scuola, lo si facesse senza definire per categorie la cosiddetta utenza: i giovani, le famiglie, i disabili, gli stranieri…mi piacerebbe che si decidesse di “vedere” le persone e le loro infinite modalità di approccio all’esistente, al sapere, al quotidiano vivere.

La scuola dovrebbe essere tenuta al riparo da ciò che si definisce con il termine “pubblico” e da ciò che le manovre finanziarie ritengono di dover fare per ridimensionare, tagliare, diminuire anziché aumentare. E non importa che altre nazioni sappiano risparmiare, perché è proprio questa l’ora in cui non si dovrebbe risparmiare sull’istruzione, ma pensare alla sua dimensione espansiva. Le persone sono chiamate a fare sacrifici. Eppure perfino per reggere i sacrifici ci vuole una solida base culturale costruita con sapienza ed equilibrio.

E questo saper reggere non si impara dall’oggi al domani. Si apprende strada facendo con l’attitudine al lavoro di squadra, alla riflessione, con l’amore per il bello che si oppone al bello imposto dai consumi.

Perfino per incassare senza reagire con violenza a una manovra finanziaria durissima ci vuole una scuola che alleni in modo colto e arguto all’argomentazione, all’ironia, alla critica, al pensiero divergente.

Questa scuola non c’è da nessuna parte, né in Germania, né in America, né In Francia… e…neppure in Italia.

Ma in Italia ci potrebbe essere eccome: si pensi ai secoli di cultura, arte, bellezze, creatività che abbiamo alle spalle. Abbiamo mai veramente tenuto in seria considerazione ciò che siamo stati, le nostre origini? Ogni governo che si è succeduto, ogni ministro della pubblica istruzione non ha incentrato il proprio lavoro sul patrimonio e sulla storia specificamente italiana. Nessuno. Ci si è limitati a costruire programmi, Indicazioni, a trovare obiettivi e finalità per formare un cittadino al passo coi tempi contestuali guardando sempre a modelli esterofili.

Eppure non è così che si crea qualcosa che vada a sostenere la peculiarità italiana e la sua esigenza di far emergere la propria diversità in Europa.

Dovremmo pensare a una scuola media e superiore che in continuità con gli ordini che le precedono puntino in particolare (in forma strutturale e non come un qualche progetto sperimentale avulso dal lavoro ordinario e quotidiano) a valorizzare il patrimonio e a usare le materie in modo assolutamente finalizzato a sviluppare reti di esse: fra matematica e arte, fra lingua e matematica, fra storia e arte, fra geografia (andrebbe potenziata) e turismo, fra turismo e arte, fra lingua straniera e letterature, fra educazione tecnica e arte, fra geometria e architetture, fra lingua italiana e latina, fra latino e filosofia, fra filosofia, arte, ambiente, scienze naturali e natura in senso lato.

Dovremmo pensare a qualcosa di spiazzante che includa il valore che diamo quasi soltanto noi in Europa alla persona, qualsiasi siano le sue potenzialità, per mostrare all’Europa che c’è un’Italia che collabora con i propri specifici apporti, ma non subisce le peculiarità altrui. Un’Italia competitiva sul piano della cultura è quello che un governo dovrebbe costruire utilizzando ogni precario, ogni educatore, ogni docente anziano disponibile, ogni professionalità a disposizione, ma anche liberando, in modo assolutamente gratuito, l’accesso per le scuole ai musei, ai monumenti, a qualsiasi opportunità offra l’ambiente intorno. Proprio nel momento in cui la crisi si fa più pesante, si dovrebbe spendere per mostrare ai propri cittadini che non si viene meno alla tutela della cultura dei figli di tutti. Proprio in questo momento, più grande dovrebbe essere lo sforzo affinché le scuole di ogni ordine e grado non venissero ridimensionate, bensì incentivate, anche economicamente, per inventare nuove strade, nuovi percorsi culturali e metodologici al fine di reagire al degrado e alla disperazione dei suicidi (mi riferisco agli ultimi tragici avvenimenti umani di cui siamo stati impotenti spettatori).

Insegnare a diventare maestri di se stessi ad ogni persona con la quale ogni insegnante viene a contatto dovrebbe essere lo scopo di qualunque ricerca pedagogica, ma anche di scelte ministeriali, affinché ciascuna persona possa trovare dentro di sé la forza e le energie per dare qualcosa di prezioso alla società tutta. Ecco, insegnare a diventare maestra/o di se sessi è la sfida più grande e utile per ognuno e per la collettività.

Per realizzare questo, è chiaro che ogni ordine di scuola deve fare la propria parte abbandonando proprio gli idoli contemporanei della meritocrazia, andando verso una dinamica di classe e di istituto che apra la propria visone e con ampio respiro dia l’accesso alle proposte culturali che emergono sia dagli stessi alunni, sia dal mondo esterno dei media, dei quotidiani, dei musei, di Internet, ecc… Occorre che compiti in classe, interrogazioni e voti siano la parte minore dell’insegnamento, che venga ridimensionato il loro ruolo a favore della pedagogia conversazionale, della pedagogia della ricerca sul campo, della ricerca-azione, della scoperta in luogo della trasmissione, dell’accesso ai libri e alle biblioteche, in luogo del libro di testo che pure può servire come base da cui partire. Occorre che alunni e alunne possano usufruire durante la giornata extrascolastica di laboratori di lingua straniera, teatrale, scientifica, artistica (nel senso più ampio: musica, danza, scultura, artigianato, …) come e quando lo desiderano. Occorre che la scuola venga data alle mani dei giovani nella gestione di laboratori e idee da sperimentare e da proporre. Occorre che si capovolga il sistema: che ogni alunno/a senta la responsabilità del proprio apprendimento, che si renda conto che le potenzialità, lo stile, le modalità dell’apprendere e della costruzione del proprio futuro sono nelle sue mani. Occorre che gli insegnanti prendano atto di essere sapienti mediatori, accompagnatori, esploratori della realtà mutevole insieme con gli alunni e le alunne. La lezione frontale, che pure è utilissima per coordinare e informare, va superata, così come la rigida scansione alle medie e alle superiori di orari, materie ognuna a se stante, ognuna con il suo rituale di spiegazioni e verifiche, di compiti a casa il più delle volte non eseguiti o mal eseguiti. Occorre risolvere la questione annosa del tempo tiranno in favore di una didattica che punti sull’approfondimento e non sulla fretta e sulla quantità. In particolare bisogna evitare la canalizzazione precoce verso un mercato che restringerebbe le possibilità del singolo di autoconoscere le proprie tendenze e potenzialità nei vari campi del sapere e del saper fare.

Le generazioni a confronto non si devono fronteggiare, bensì incontrare sul piano delle diverse competenze, anche se con responsabilità distinte.

Occorre oggi più di prima che il Ministro si accorga che il problema della dispersione non si affronta richiamando all’uso della tecnologia che pure è utilissima, bensì con l’incentivare le attività che vedono insegnanti e alunni lavorare senza i lacci e i laccioli delle continue verifiche e dei punteggi. Occorre che si renda conto che le personalità degli alunni all’uscita dalla scuola elementare entrano in conflitto con un modo di concepire la scuola da parte degli adulti che è in contrasto con il loro desiderio di autonomia, di espressione, di creatività, di porre domande e ottenere risposte alla cui formulazione essi possano partecipare. Lo studio oggi è dinamico, fluido, in movimento. Oggi, la scuola può introdurre a qualsiasi mondo del sapere, in maniera più immediata con l’utilizzo sapiente di Internet. Poi può chiamare al rigore nell’apprendimento accompagnando i ragazzi e le ragazze a un lavoro di studio sulle tematiche scaturite in molteplici modi che coinvolgano essi stessi alla cooperazione e alla solidarietà fra i diversi stili di apprendimento e le differenti aspirazioni sia nella produzione di riflessioni personali, sia nella produzione di materiali, sia nell’organizzare forum, conferenze, scambi di vedute, aperture verso il mondo esterno con esperti in ogni campo. Si pensi ad esempio a un interscambio tra gli studi dei ricercatori dei dipartimenti di facoltà con quelli di giovani studenti delle superiori motivati ad arricchire le proprie conoscenze in ogni ambito.

Ma non basterebbe fornire di un tablet ogni banco! Assolutamente non basterebbe, se l’operazione non fosse accompagnata da un incentivare l’allontanamento dalla concezione che vede la scuola ingessata in rigidi sistemi di valutazione, i quali per loro natura impongono giudizi e voti a breve termine. Volere una scuola italiana, in stile storicamente italiano invece vuol dire renderla simile alle botteghe artigiane nelle quali l’apprendista si misura con la materia e con l’esperienza dei vecchi maestri per poi rielaborare, ricreare, arricchire di valore aggiunto con il lavoro gomito a gomito con il maestro e con i maestri di altre botteghe in una catena di magisteri che costantemente si rinnovano.

Occorre non temere di spendere affinché le classi siano gruppi numericamente ridotti, non di livello, bensì classi comunità nelle quali gli inclusi possano essere di stimolo gli uni agli altri nel rispetto delle diverse abilità, capacità e ruoli che i gruppi stessi si danno.

La morte filosofica

di Paolo Vicentini – 24/06/2010

Fonte: In Quiete

 

È veramente difficile comprendere la filosofia antica – non solo quella occidentale, ma anche quella orientale – senza tener conto della sua componente pratica, del suo essere non speculazione astratta, ma modo di vita volto alla realizzazione della sapienza.

Anche la lettura dei testi filosofici, nell’antichità, rientrava nell’ambito di una disciplina spirituale, di un esercizio propedeutico alla saggezza. Nella scuola platonica, ad esempio, l’ordine di lettura dei dialoghi di Platone non doveva affatto essere casuale. Scrive un noto testo platonico in passato attribuito ad Olimpiodoro: “Il primo da prendere in esame è l’‘Alcibiade’, perché in questo dialogo impariamo a conoscere noi stessi […], l’ultimo invece è il ‘Filebo’, perché vi si parla del Bene […]. Quanto a quelli che vengono considerati nel mezzo, devono essere posti nell’ordine seguente:

poiché vi sono cinque virtù di profondità vieppiù crescente, naturali, etiche, politiche, catartiche, teoretiche, bisogna leggere prima il ‘Gorgia’, testo politico, seguito dal catartico ‘Fedone’; infatti la vita catartica viene dopo quella politica; poi si procede verso la conoscenza degli esseri favorita dalla virtù etica. Questi esseri sono presi in considerazione secondo i loro pensieri e le loro azioni, perciò dopo i dialoghi indicati sopra bisogna passare alla lettura del ‘Cratilo’, che offre insegnamenti sui nomi, e quindi a quella del ‘Teeteto’, che dà insegnamenti sulle cose. Dopo di ciò, si giungerà ai dialoghi che trattano gli argomenti di scienza naturale, e così poi al ‘Fedro’ e al ‘Simposio’, che dissertano in forma teoretica e trattano problemi di teologia; infine si arriverà ai dialoghi perfetti, cioè al ‘Timeo’, al ‘Parmenide’ […] [le ‘Lettere’, le ‘Leggi’, la ‘Repubblica’]” [1]. “Ecco perché – commenta Pierre Hadot – quando Porfirio, discepolo di Plotino, pubblicò i trattati del suo maestro che non erano stati fino ad allora accessibili che ai discepoli più avanzati, non li presentò secondo il loro ordine cronologico di apparizione, ma secondo le tappe del progredire spirituale: la prima ‘Enneade’, ossia i primi nove trattati, riuniscono gli scritti che hanno un carattere etico, la seconda e la terza ‘Enneade’ fanno riferimento al mondo sensibile e a ciò che vi è in esso, e corrispondono alla parte della fisica; la quarta, la quinta e la sesta ‘Enneade’ hanno per argomento le cose divine: l’anima, l’Intelletto e l’Uno; esse corrispondono all’epottica. Le questioni dell’esegesi platonica trattate da Plotino nelle sue diverse ‘Enneadi’

corrispondono piuttosto bene all’ordine di lettura dei dialoghi di Platone proposto dalle scuole platoniche. Il concetto di progredire spirituale sta a significare che i discepoli non possono accostarsi allo studio di un’opera se non sono pervenuti al livello intellettuale e spirituale che permetterà loro di trarne profitto. Alcune opere sono riservate ai novizi, altre ai discepoli più avanzati. Non verranno esposte, dunque, in un’opera destinata ai novizi questioni complesse che sono riservate agli avanzati” [2].

Questo percorso spirituale, che caratterizza tutta la filosofia antica, durava molti anni e prevedeva spesso una vita passata in una comunità filosofica a quotidiano contatto con un maestro. Chi ha dimestichezza con tradizioni sapienziali ancora viventi, sa che questa tipologia di insegnamento è ancora praticata. Ad esempio, nel buddhismo tibetano (vajrayana), il corso di studi dei tre maggiori monasteri geluk (Drepung, Sera e Ganden) dura da quindici a venticinque anni. Esso inizia con lo studio della logica elementare, articolato in tre testi: la ‘via del ragionamento’ (rigs lam) piccola, intermedia e grande.

Padroneggiate le tre vie di ragionamento, si passa ai ‘tipi di consapevolezza’ (blo rigs) e ai ‘tipi di ragionamento’ (rtags rigs).

Lo studio di queste materie occupa da uno a cinque anni e costituisce una preparazione al nucleo del percorso spirituale geluk: i cinque trattati indiani chiamati semplicemente i ‘cinque testi’. Il primo è L’‘Ornamento della realizzazione’ (Abhisamayalamkara), attribuito a Maitreya, il cui studio richiede da quattro a sei anni. Questo testo si presenta come l’‘insegnamento nascosto’ dei ‘Sutra della perfezione della saggezza’ (Prajnaparamitasutra), ossia la struttura del sentiero verso l’illuminazione. Il secondo testo è l’‘Introduzione alla via di mezzo’ (Madhyamakavatara), di Candrakirti. Il suo studio richiede da due a quattro anni. Il terzo testo è il ‘Commento alla conoscenza valida’ (Pramanavarttika), di Dharmakirti. Il quarto è il ‘Tesoro della conoscenza’ (Abhidharmakosa), di Vasubandhu, un compendio della dottrina hinayana. Il suo studio richiede quattro anni. L’ultimo testo, che richiede anch’esso quattro anni, è il ‘Discorso sul Vinaya’ (Vinayasutra), di Gunaprabha, che elenca le regole della disciplina monastica [3].

Ho fatto questa lunga premessa per evidenziare come sia ben difficile comprendere i testi di Platone senza tener presente quale fosse la funzione che essi dovevano esercitare sul cammino spirituale del discepolo. Si prenda ad esempio la questione platonica, ben evidente nel “Fedone”, della differenza fra corpo e anima e della filosofia come esercizio di separazione dell’anima da corpo (Fedone, 64 C; 67 C-D). Cosa significa questo in termini di pratica filosofica? Platone definisce la morte proprio come una separazione dell’anima dal corpo (Fedone, 64 C); cosa significa questo: che la filosofia deve condurre al suicidio? E poi: Platone non dice forse nello stesso “Fedone” (81 A) ed in altri dialoghi che il fine ultimo della filosofia è invece realizzare una condizione di immortalità? C’è qualcosa che non torna:

cosa significa veramente la parola “corpo” nel “Fedone” platonico?

Indica veramente solo questo ammasso di ossa, carne e sangue o è qualcosa d’altro?

Apro una parentesi. Anche in tradizioni orientali è molto facile fraintendere l’utilizzazione di un certa terminologia, apparentemente molto semplice perché di uso quotidiano. Il buddhismo, ad esempio, è stato considerato a lungo da certi occidentali come una dottrina pessimistica che propagandava il rifiuto del mondo e un totale annullamento di sé nel vuoto indifferenziato del Nirvana: un vero e proprio suicidio. Pochissimi anni fa lo stesso Papa presentava il buddhismo in questa chiave: “L’‘illuminazione’ sperimentata dal Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna; dunque i legami esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal mondo”[4]. Ma il buddhismo è veramente questo? Cosa significa veramente la parola “mondo” nei testi buddhisti? Ritornerò alla fine su tale questione.

Torniamo per il momento al “Fedone” platonico. Se leggiamo con cura questo dialogo, vedremo che per “corpo” Platone non intende tanto la realtà ontologica che abitualmente noi associamo a questa nozione, ma una certa modalità della percezione, la percezione sensibile (cioè corporea) e, soprattutto, l’attaccamento a questa percezione (la passione), che se assolutizzata porta a identificarsi con ciò che non siamo. Come rileva giustamente Hadot riferendosi a questo esercizio spirituale platonico: “Esercitarsi a morire significa esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività” [5].

Del resto, che questo fosse il vero significato di tale terminologia emerge anche da tutta la tradizione platonica successiva. Porfirio, ad esempio, esplicita chiaramente e sinteticamente il significato della “morte filosofica”: “Ciò che la natura ha legato, la natura scioglie e ciò che l’anima ha legato, l’anima scioglie; la natura ha legato il corpo all’anima, l’anima ha legato se stessa al corpo. La natura quindi scioglie il corpo dall’anima, e l’anima scioglie se stessa dal corpo. La morte è di due tipi: la prima, più conosciuta, che avviene quando il corpo si scioglie dall’anima, e la seconda, quella dei filosofi, che avviene quando l’anima si scioglie dal corpo; e la seconda non segue affatto la prima” [6].

Questa stessa dottrina è presente lungo tutta la filosofia antica fin dentro al cristianesimo. Han Urs von Balthasar giustamente rimarcava che “con i termini ‘carne’ e ‘spirito’, Paolo non designa delle parti della natura umana, ma sempre delle condizioni dell’intero uomo” [7].

Non si dimentichi inoltre che la cristiana tradizione monastica del deserto definiva la propria ascesi – identificata con la perfezione di vita cristiana – “filosofia” [8]. In Evagrio Pontico è reperibile un passo che riecheggia quello di Porfirio: “Separare il corpo dall’anima è potere che appartiene soltanto a Colui che li ha uniti; ma separare l’anima dal corpo è potere che appartiene precisamente a colui che tende alla virtù. Infatti i nostri Padri chiamano l’anacoresi [la vita monastica] esercizio della morte e fuga dal corpo” [9]. La condizione di perfetto distacco dal corpo, l’assenza delle passioni, era definita ‘apatheia’, termine spesso tradotto con ‘indifferenza’. In realtà, questa condizione è tutt’altro che una condizione di indifferenza, almeno per come siamo abituati ad intendere questa parola [10]. Il distacco dal corpo è infatti un distacco dall’io egoico, dal falso sé, e dalla massa di attaccamenti che esso produce ed è. Per far questo, uno degli esercizi spirituali più utilizzati nell’antichità, sia in oriente che in occidente [11], era l’attenzione verso il presente, la vigilanza verso se stessi (prosoche). Bisogna che il filosofo si eserciti in ogni momento ad essere perfettamente cosciente di ciò che è e di ciò che fa, e, nel far questo, a vivere ogni istante come se fosse il primo e l’ultimo:

“Fa’ conto che ogni nuova alba segni quello ch’è per te l’ultimo giorno” (Orazio, Epistole, 1.4.13).

“Non c’è stato giorno che io non abbia considerato come l’ultimo” (Seneca, Lettere a Lucilio, 93.6).

“È impossibile vivere bene il giorno presente se non lo si considera come l’estremo” (Musonio Rufo, fr. 22).

“Che ogni giorno la morte sia davanti ai tuoi occhi, e mai avrai alcun pensiero basso né alcun desiderio eccessivo” (Epitteto, Manuale, 21).

“Agire, parlare, pensare sempre come chi può in qualsiasi momento uscire dalla vita”.

“Compi ogni azione della tua vita come fosse l’ultima, tenendoti lontano da ogni superficialità”.

“Ciò che porta alla perfezione nel modo di vivere è di trascorrere ogni giorno come fosse l’ultimo” (Marco Aurelio, Ricordi, 2.11, 2.5., 7.69).

“Vivete come se doveste morire ogni giorno” (Atanasio, Vita di Antonio, 91) [12].

L’esercizio dell’attenzione verso di sé era caratteristico anche di Plotino, come ci riporta il suo biografo Porfirio: “La sua attenzione per se stesso non si allentava mai, se non durante il sonno, che d’altronde il poco cibo (spesso non consumava nemmeno del pane) e il continuo volgersi del suo pensiero verso l’intelletto gli impedivano” (Vita di Plotino, 8). E’ ovvio che essendo questo esercizio di attenzione verso di sé un esercizio di attenzione verso il proprio vero io (l’intelletto divino) e di distacco dal proprio falso io (l’ego e le sue passioni), l’attenzione verso di sé non preclude l’attenzione verso gli altri, ma anzi predispone ad essa. Commenta infatti Hadot il passo di Porfirio appena citato: “Cosa che non impedisce a Plotino di occuparsi degli altri. Egli è tutore di diversi bambini che alcuni membri dell’aristocrazia romana gli affidano alla loro morte, e si occupa della loro educazione e dei loro beni. Emerge qui che la vita contemplativa non annulla l’attenzione per gli altri, e che questa attenzione può benissimo conciliarsi con la vita secondo lo spirito” [13].

L’indifferenza del saggio antico, allora, non è tanto uno stato di apatia verso tutto e verso tutti, ma, al contrario, un mostrare verso ogni cosa, anche minima, la stessa attenzione, lo stesso amore, senza attaccarsi, e quindi dar privilegio, ad una cosa più che ad un’altra considerandola superiore o inferiore. Hadot, ancora una volta, ha perfettamente colto questa condizione spirituale: “L’indifferenza del saggio non è un disinteresse riguardo a tutto, ma una conversione dell’interesse verso qualcosa d’altro rispetto a ciò che accaparra l’attenzione e le preoccupazioni degli altri uomini. Per il saggio stoico, ad esempio, si può dire che dal momento in cui ha scoperto della Natura universale, esse assumono per lui un interesse infinito; che le cose indifferenti non dipendono dalla sua volontà, ma dalla volontà egli le accetta con amore, ma tutte con lo stesso amore; egli le trova belle, ma tutte degne della medesima ammirazione. Egli dice ‘sì’ all’universo intero e a ciascuna delle sue parti, a ciascuno dei suoi eventi, anche se una parte o un evento paiono dolorosi e ripugnanti. Si trova qui, d’altronde, lo stesso atteggiamento di Aristotele riguardo alla Natura: non bisogna avere un’avversione puerile per tale o talaltra realtà prodotta dalla Natura, poiché, come diceva Eraclito, anche in cucina ci sono degli dèi. L’indifferenza del saggio corrisponde a una trasformazione totale del rapporto con il mondo. Equilibrio dell’anima, assenza di bisogno, indifferenza alle cose indifferenti: queste qualità del saggio determinano la tranquillità della sua anima e la sua assenza di turbamento” [14].

Si è detto che l’Uno platonico toglierebbe valore all’hic et nunc, depotenzierebbe, come meno vera, la realtà quotidiana delle cose, degli enti finiti. In realtà ciò che veramente depotenzia la nostra visione della realtà è proprio l’attaccamento ad una immagine limitata, egoica, della realtà.

L’apertura verso l’Uno va intesa come apertura verso l’universale e verso una percezione della realtà finalmente depurata e limpida, verso la vita contemplativa (bios theoretikos) [15]. Scrive Plutarco: “Un uomo virtuoso non fa forse festa ogni giorno? E anche festa splendida, se siamo saggi. Il mondo è il più sacro e il più divino di tutti i templi. L’uomo vi è introdotto dalla nascita per essere lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini sensibili delle essenze intelligibili […] che sono il sole, la luna, le stelle, i fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l’alimento delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e rivelazione perfetta deve essere colma di gioia e di intima quiete” (De tranquillitate animi, 20). L’apertura contemplativa alla totalità del cosmo, propria della grande tradizione sapienziale greca, è stata di recente bene messa in evidenza da Umberto Galimberti: “L’impossibilità [nel mondo greco] di dominare la natura iscrive tanto il fare tecnico quanto l’agire politico nell’ordine immutabile della natura che l’uomo non può dominare ma solo svelare.

Da qui la concezione greca della verità come svelamento (a-letheia) della natura (physis) dalla cui contemplazione (theoria) nascono le conoscenze relative al fare e all’agire. […] Nella lingua latina… ‘contemplare’ è l’atto mediante il quale ogni essere riconosce il suo posto nella gerarchia cosmica, e da questo riconoscimento attinge la regola per la propria azione. Questa non si cadenza sugli scopi che l’uomo può proporsi, ma sull’ordine del Tutto a cui l’uomo deve adeguarsi, dopo aver riconosciuto nei cieli e nella regolarità del moto celeste la misura inoltrepassabile. Per questo Terenzio chiama ‘templa’ i cieli, e così Varrone e Lucrezio quando parla degli ‘Acherusia templa’. Il termine traduce letteralmente la ‘theoria’ greca, che etimologicamente rinvia a ‘thea’ (visione) e a ‘orao’ (vedere), dove, nella fusione delle due radici, si intensifica il senso di quella visione, in sanscrito ‘vidya’, che nella radice ‘vid’, da cui il latino ‘videre’, custodisce il segreto dei ‘Veda’. Per diverse e distanti che siano queste parole pre-occidentali non ospitano una prassi come intervento dell’uomo sulla natura, ma come dice, Plotino, un ‘theorema’, dove il cosmo è ‘oggetto di contemplazione’, e dove l’uomo deve assimilare il suo ‘logos’ al ‘logos cosmico che opera [poiei] restando immobile, e dunque restando in sé [en auto menon]’ (Enneadi, 3, 8.3). Questo schema, che descrive la relazione dell’uomo alla totalità cosmica, era già stato anticipato da Cicerone per il quale: ‘l’uomo è nato per contemplare il cosmo e, pur essendo lontano dall’esser perfetto, è pur sempre una piccola parte di ciò che è perfetto’ (De natura deorum, 2, 14). Se la perfezione è del Tutto, perfetta non sarà l’azione che persegue la finitezza degli scopi promossi da un’intenzionalità che non può modificare l’ordine cosmico, ma l’azione che, contemplando quest’ordine, cerca di adeguarsi consentendo al mortale di toccare l’eterno. Il primato greco della contemplazione, conseguente al concetto di verità come svelamento (aletheia), non è dunque una svalutazione della prassi, ma una sua nobilitazione a irradiamento di una visione, dove il fare (poiesis) discende senza mediazioni dal vedere (theoria)” [16].

Torniamo infine alla questione buddhista del cosiddetto ‘rifiuto del mondo’.

Effettivamente, ad uno sguardo superficiale, la lettura di alcuni passi del “Canone Pali” potrebbe dare adito all’idea di un disprezzo buddhista nei confronti del mondo: “I saggi fuggono via dal mondo” (Dhammapada, 175); “Io vi annuncio questa liberazione dal mondo che vi ho esposto secondo realtà: così ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 172). Ma cosa si intende per ‘mondo’ in questi passi? È veramente scontato quale sia il suo autentico significato? No, non lo è. Ed infatti per ‘mondo’ si intende in questi testi proprio ciò che la tradizione platonica (e non solo) intendeva con ‘corpo’ e cioè l’attaccamento alla percezione sensibile, ad una falsa immagine di sé che produce ‘dolore’ (dukkha): “Da sei cose ha avuto origine il mondo, o Hemavato, – disse il Sublime – con sei cose è in relazione, su sei cose esattamente esso si fonda ed in sei cose viene dissolto. Si conoscono in questo mondo cinque piaceri dei sensi e, sesto, quello della mente; distaccandosi dal desiderio ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 169, 171) [17]. Questa condizione interiore, in cui si è deposto il fardello del proprio ego, è anche quella che permetta la vera equanimità (upekkha), la vera compassione (karuna) e la vera benevolenza (mudita) verso tutti gli esseri: “Coltivi [colui che ha raggiunto il retto sentiero] benevolenza ed animo illimitatamente benigno per tutto il mondo: in alto, in basso e in ogni altra direzione senza impedimento alcuno, amichevolmente e con animo pacifico. Che stia fermo o che cammini, che sieda o che giaccia, sia libero da indolenza e fissi la mente sulla consapevolezza: tale condizione – com’é stato detto – è divina” (Sutta Nipata, 150-151).

Spesso, anche nel buddhismo, se ne parla come di una condizione di ‘indifferenza’, ma bisogna avere cura di intendere questa parola nel senso che prima specificava Hadot riguardo alla filosofia antica. Ecco ciò che dice in proposito il Canone Pali: “Il muni [l’asceta] completamente liberato non nutre affetti né avversioni: in lui non albergano invidia e rincrescimento, come l’acqua non si ferma sulla foglia. Come la goccia d’acqua non aderisce alla foglia del loto, come l’acqua non insudicia il loto, così il muni non si attacca a ciò che vede o sente o pensa” (Sutta Nipata, 811, 812) [18].

NOTE

[1] “Prolegomena in Platonis Philosophiam”, 26. Questo passo è tradotto nell’ottimo testo di V. Magnien, “I Misteri di Eleusi”, Edizioni di Ar, Padova 1996, p. 183.

[2] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, Einaudi, Torino 1998, pp. 150-151.

[3] Cfr. D. S. Lopez Jr., “Che cos’è ol buddhismo”, Ubaldini, Roma 2001, pp. 133-134.

[4] Giovanni Paolo II, “Varcare la soglia della speranza”, Mondadori, Milano 1994, pp. 94-95.

[5] P. Hadot, “Esercizi spirituali e filosofia antica”, Einaudi, Torino 1988, p. 51; ma si veda tutto il paragrafo intitolato “Imparare a morire”, pp. 49-58, ed inoltre il paragrafo “L’io, il presente e la morte” in Id., “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., pp. 184-191.

[6] Porfirio, “Sententiae ad intelligibilia ducentes”, 8-9 Lamberz (= 19-20 Della Rosa). Una ottima traduzione italiana di questo trattato è quella di Giuseppe Girgenti (Porfirio, “Sentenze sugli intellegibili”, Rusconi, Milano 1996), ma ottime sono anche le altre traduzioni di A. R. Sodano (Porfirio, “Introduzione agli intellegibili”, D’Auria, Napoli 1979) e di M. Della Rosa (Porfirio, “Sentenze”, Garzanti, Milano 1992).

[7] H. U. von Balthasar, “La prière contemplative”, Fayard, Paris 1972, p. 256; ma si veda più in generale per quanto riguarda l’intera tradizione cristiana H. de Lubac, “L’antropologia tripartita nella tradizione cristiana”, in Id., “Mistica e mistero cristiano”, Jaca Book, Milano 1975, pp. 59-117; M. Vannini, “La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia”, Le Lettere, Firenze 2003.

[8] Cfr. G. Penco, “La vita ascetica come ‘filosofia’ nell’antica tradizione monastica”, in “Studia Monastica”, 2, 1960, pp. 79-93.

[9] Evagrio Pontico, “Prakticos”, 52. Una buona traduzione italiana si trova in Evagrio Pontico, “Trattato pratico sulla vita monastica”, Città Nuova, Roma 1998.

[10] Si vedano i paragrafi relativi all’‘apatheia’ in G. M. Colombas, “Il monachesimo delle origini”, tomo II, Jaca Book, Milano 1990, pp. 278-283; T. Spidlík, “La spiritualità dell’Oriente cristiano”, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 248-257; P. Miquel, “Lessico del deserto”, Qiqajon, Magnano 1998, pp. 143-171.

[11] Cfr. G. G. Pasqualotto, “Il presente come divino: Epicuro, Seneca e il Buddhismo zen”, in Id., “East & West. Identità e dialogo interculturale”, Marsilio, Venezia 2003, pp. 153-160.

[12] L’esercizio spirituale del “vivere ogni istante come fosse l’ultimo” è praticato lungo tutto l’arco della filosofia antica (cfr. i riferimenti citati alla nota [5]), non solo occidentale. Il maestro buddhista tibetano Lodrö Gyatso, ad esempio, insegna: “Pensa che questo momento è l’ultimo che vivi. Perché sciuparlo con attese che non si verificheranno mai? Ogni momento è completo. Vivi ogni momento come l’ultimo” (“Il tantra dell’unico punto, Libreria Editrice Psiche, Torino 1999, p. 72). Una eco di questo insegnamento si può trovare anche in Carlo Michelstaedter: “Chi vuol avere un attimo solo sua la sua vita, essere un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte […]. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie” (“La persuasione e la rettorica”, Adelphi, Milano 1982, pp. 69-70).

[13] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., p. 155.

[14] Ibid., p. 213.

[15] Si veda J. Ritter, “Origine e senso della ‘theoria’”, in Id., “Metafisica e politica”, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 3-27.

[16] U. Galimberti, “Psiche e techne”, Feltrinelli, Milano 1999, pp.

279-280. Ma il passo è ripreso quasi alla lettera da Id., “La terra senza il male”, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 131-132.

[17] Cfr. Buddhadasa, “Io e Mio. Gli insegnamenti di un maestro buddhista tailandese”, Ubaldini, Roma 1991, pp. 158-159.

[18] Una ottima traduzione dei testi del Canone buddhista in lingua pali che ho citato, a parte l’ultimo, si trovano in “La rivelazione del Buddha”, vol. I, Mondadori, Milano 2001, alle pp. 537, 871, 874.

L’ultima citazione può essere letta in Canone Buddhistico, “Raccolta di aforismi (Sutta Nipata)”, Boringhieri, Milano 1979, p. 185.

Il Medioevo fu un’incomparabile stagione di cultura della ragione

 di Francesco Lamendola

Se è vero – come è vero – che la storia viene scritta dai vincitori, allora si spiega come l’immagine del Medioevo tuttora prevalente nella cultura odierna, largamente dominata dalle tendenze neopositiviste e scientiste di origine illuminista, è pur sempre quella di un’età oscura, credula, superstiziosa, ove la cultura era ristretta a pochi monasteri e nei quali, ad ogni modo, la ragione era tenuta in ben scarsa considerazione.

Si tratta di una visione semplicistica, sommaria, quasi caricaturale: ma, avallata incessantemente da decine e centinaia di libri, di film, di frasi fatte e di luoghi comuni, essa tiene ancora campo non solo presso il vasto pubblico dei non specialisti, ma anche – in una certa misura – in quello degli storici di professione, degli studiosi di letteratura e di filosofia, dei cultori dell’arte e di storia della scienza.

Il pregiudizio illuminista e positivista è ben duro a morire; e, anche se il panorama del pensiero si è notevolmente modificato negli ultimi due o tre decenni, mostrando quanto fosse datato il paradigma scientista che pareva destinato a sfidare i secoli dei secoli, la suddetta visione riduttiva e denigratoria della cultura medievale è rimasta, e non vi sono molte ragioni per pensare che le cose potranno cambiare abbastanza in fretta.

Il primo pregiudizio è che esista un solo tipo di ragione: quella strumentale e calcolante. La cultura medioevale – ma, in verità, anche quella greca – la pensava altrimenti: basta leggere qualche pagina di Platone o dello stesso Aristotele per rendersene conto.

Il secondo pregiudizio è che la ragione medievale fosse ostaggio della teologia, che l’avrebbe costretta a uno stato di perenne minorità e subordinazione. Nulla di più falso: la teologia medievale si è servita al massimo grado della ragione: basti vedere l’importanza del sistema aristotelico nella formazione della Scolastica, che rappresenta il vertice di tutto il pensiero medievale.

Il terzo pregiudizio è che la cultura medievale, e particolarmente la spiritualità cristiana, abbiano diffidato della ragione, vedendo in essa quanto meno un potenziale pericolo; e che tale diffidenza abbia provocato un generale ritardo nello sviluppo della filosofia e, più ancora, delle scienze empiriche.

Ora, senza voler negare che sia esistito un lungo dibattito, all’interno della cultura medievale, sulla possibilità e sul modo di conciliare i classici, ossia la cultura pagana, con la Rivelazione, resta il fatto che, alla fine, a tale dibattito venne data una risposta ampiamente positiva. E quanto al fatto che la ragione in se stessa avrebbe costituito oggetto di diffidenza, noi siamo troppo abituati a giudicare la cosa dal punto di vista «moderno», ossia di una ragione puramente laica e immanente: ed è vero che, nei confronti di un tale modo di concepire la ragione umana, i teologi del Medioevo nutrivano una viva apprensione.

Qui, come sempre, appare palese l’impossibilità di accostarsi allo studio di un dato evento o periodo storico, senza sforzarsi di spogliarsi dei propri pregiudizi e di calarsi, per quanto possibile, entro l’orizzonte culturale e spirituale in cui quell’evento o quel periodo si svolsero. In altre parole, noi non potremo capire mai nulla del pensiero medievale se continueremo a pretendere di giudicarlo con le categorie mentali della modernità; ma esso incomincerà a mostrarci le sue bellezze e i suoi tesori se saremo capaci di restituire ad esso il clima intellettuale e spirituale che gli fu proprio, e all’interno del quale ebbero origine le forme del suo pensare.

Dunque, la prima cosa da tener presente, a questo proposito, è che la cultura medievale concepiva se stessa come una cultura cristiana; che non ammetteva la separazione tra scienza sacra e scienza profana, tra verità di ragione e verità rivelata, se non nella misura in cui fosse possibile, in ogni caso, armonizzarle e compenetrarle l’una nell’altra; che la pretesa della ragione di «fare tutto da sé», ovvero di sostituirsi alla Rivelazione e alle Scritture, era vista come la classica tentazione del peccato di orgoglio, contro la quale soprattutto occorreva stare in guardia.

In altri termini, l’uomo medievale – compresi gli intellettuali – poneva dei limiti ben precisi  al Logos strumentale e calcolante non perché fosse privo di raffinati strumenti logici e speculativi o perché avesse paura di avventurarsi fuori dall’ambito delle verità rivelate; ma perché possedeva il fermissimo convincimento che il giusto rapporto fra sé e Dio si colloca entro una prospettiva che faccia propri il senso del limite e il senso del mistero.

Pertanto, per l’uomo medievale non esistono due verità, una sacra ed una profana: la verità è una, ed è tutta sacra, perché tutta di origine divina; se egli ammetteva una divisione fra la scienza sacra e le arti liberali, era solo per ragioni pratiche e contingenti. Per lui, ogni cosa proviene da Dio e ogni cosa tende a Dio, ragione compresa; perciò, è inammissibile che la ragione voglia battere una strada che non sia in accordo con la rivelazione cristiana.

Si dirà che gli intellettuali del Medioevo, in questo modo, si autolimitavano a un punto tale, da castrare le possibilità espansive del pensiero; ma è falso.

Tanto per cominciare, gli uomini di pensiero del Medioevo non erano affatto degli “intellettuali” nel senso moderno della parola: erano tutti, o quasi, degli uomini di Chiesa, spesso membri degli ordini regolari; e, per quanto vivessero in conventi o abbazie sperduti in cima alle montagne, si sentivano più collegati al mondo di quanto non lo siano molti sedicenti intellettuali d’oggi, i quali vivono entro orizzonti mentali infinitamente più meschini e ristretti, per quanto possano essere dei gran viaggiatori e avere dimestichezza con una dozzina di università sparse nei cinque continenti.

E questo legame con il mondo veniva loro dal sentirsi strettamente uniti alla volontà di Dio e dal concepire tutta la società e tutta intera la creazione come una espressione di quella suprema volontà, a somiglianza della quale è fatta l’anima umana.

Grazie alla salda fede nell’unione con Dio e nella comunione spirituale con tutti gli esseri umani – passati, presenti e futuri, tutti usciti dalla sapiente mano divina – i pensatori medievali erano sempre collegati «organicamente» (per usare un’espressione tipicamente moderna) al reale, a tutto il reale, per quanto potessero dedicarsi, magari, all’eremitaggio o a una vita «nascosta».

La ragione, per essi, era uno strumento privilegiato col quale mettersi in ascolto della volontà divina; ma non l’unico, né il supremo: perché, ben coscienti della infinita piccolezza dell’uomo rispetto alla verità divina, credevano fermamente che con la sola ragione si può esplorare bensì l’ordine naturale delle cose, ma, per accedere a quello soprannaturale, sono necessari altri strumenti, primi fra tutti la preghiera e la contemplazione (cfr. il nostro recente articolo: «Due sono i gradi dell’intelligibile: l’uno per l’ordine naturale, l’altro per quello soprannaturale», consultabile anch’esso sul sito di Arianna Editrice).

Questo è un punto capitale, e va chiarito in maniera adeguata.

Per l’uomo moderno, figlio di quel (cattivo) maestro che è stato Francesco Bacone, «sapere è potere»: ossia, all’aumento quantitativo del suo sapere, deve corrispondere un proporzionale aumento quantitativo del suo potere sulle cose. Una volta scoperto il procedimento per effettuare una operazione chimica, fisica o biologica (scissione dell’atomo; modificazione genetica delle piante; clonazione degli esseri viventi, e così via), è impensabile non tradurre tale possibilità in realtà effettuale.

Per l’uomo medievale, le cose stanno ben diversamente. Non esiste un sapere che sia pensabile indipendentemente dal piano divino della creazione; o, se esiste, esso è di natura diabolica, perché consisterebbe in una ribellione all’ordine soprannaturale ad essa sotteso; in una pretesa dell’uomo di farsi Dio e di sostituirsi a Lui (il che è esattamente il vanto dell’uomo moderno).

Facciamo un esempio.

Oggi noi sappiamo con certezza che gli architetti medievali conoscevano da tempo il segreto delle cattedrali gotiche; che avevano calcolato da tempo, cioè, il gioco delle spinte e controspinte che avrebbe permesso loro di edificare edifici di altezza sempre maggiore, con enormi superfici riservate alle vetrate dei finestroni, scaricando il peso delle navate sugli archi rampanti e realizzando il «miracolo» di innalzare montagne di pietra come se apparissero prive di peso.

Lo sapevano, ma – ecco il punto – non lo misero in pratica per alcuni secoli. Non sappiamo perché gli architetti del periodo romanico continuarono a preferire i tozzi, massicci edifici a sviluppo prevalentemente orizzontale; e perché, a un certo punto – a  partire da un luogo ben preciso, l’Île de France – passarono allo stile gotico, a sviluppo vertiginosamente verticale, che si diffuse con prodigiosa, trionfale velocità in gran parte dell’Europa.

In questo senso, tornando alle nostre riflessioni sulla ragione, è esatto affermare che l’uomo medievale era capace di autolimitarsi: ma egli non considerava tale facoltà come un qualcosa in meno, ma come un qualcosa in più nel contesto della propria vita spirituale.

Un concetto analogo si potrebbe esprimere a proposito delle forme economiche tipiche del Medioevo, anteriormente al XII secolo e allo sviluppo dei modi di produzione capitalistici: ce ne siamo già occupati nell’articolo «Il modello economico del Medioevo forse ha ancora qualche cosa da insegnarci» (sempre sul sito di Arianna Editrice).

Il corporativismo medievale, infatti, e l’atteggiamento di diffidenza della cultura medievale verso il denaro e i facili guadagni, erano l’espressione di una società ben decisa ad autoregolarsi sulla base di un certo egualitarismo e di uno «stato stazionario» (anche qui, il contrario esatto della «crescita» e dello «sviluppo» tipici della modernità); almeno fino a quando, nel XII secolo, cominciarono a formarsi le prime grosse fortune dei mercanti e dei banchieri, che avrebbero dato vita al fenomeno politico-sociale dei Comuni.

E non è certo un caso che, per Dante – come per tutta la cultura medievale – il peccato per eccellenza dell’umanità fosse quello della cupidigia, ossia lo smodato desiderio di accumulare beni terreni, così come esso è rappresentato allegoricamente dalla terza fiera che, nel primo canto della «Divina Commedia», minaccia di divorare il poeta smarrito: la lupa.

Ecco, queste sono le caratteristiche fondamentali della ragione medievale: una ragione capace di autolimitarsi, in vista di un bene superiore ad essa; una ragione che concepisce se stessa come uno strumento per meglio avvicinarsi alle verità soprannaturali; una ragione che non vuol dominare il mondo, ma mettere l’uomo in sintonia con la verità divina: perché quello che conta, in ultima analisi, non è la sapienza di questo mondo, ma la gloria di quell’altro, cui siamo tutti incamminati (ed ecco la presenza costante del senso della morte, che stride tanto alla «delicata» sensibilità di noi moderni).

Ha scritto Inos Biffi nell’«Atlante storico della cultura medievale in Occidente» (a cura di Roberto Barbieri; Milano, Città Nuova – Jaca Book, 2007, vol. 1, pp. 124-27): “Il Medioevo nel suo complesso e nell’insieme della sua durata – con tutta l’ambiguità dei suoi confini cronologici e della stessa espressione “Medioevo” – risulta un’incomparabile stagione di cultura della ragione”.

Le forme e l’intensità di questa cultura varieranno e progrediranno, non senza conoscere momenti critici, soprattutto in relazione con la teologia, ma alla fine essa si collocherà all’interno stesso della riflessione sulla fede. Le obiezioni d’altra parte, più che nei confronti della ragione come tale, si porranno per lo più contro un certo uso della “sacra dottrina”: i “sospetti” sorgeranno specialmente da parte dell’ambiente monastico, preoccupato che il metodo della ragione e la passione o l’intemperanza razionale finiranno con il “razionalizzare” e quindi con l’alterare l’originalità stessa del mistero cristiano. Sarà l’angustia e l’apprensione di un Pier Damiani, peraltro dotato di raffinatezza e di gusto estetico singolari per la sua scrittura, o di Bernardo di Clairvaux, inquieto e allarmato, fino ad essere ingiusto, nei confronti della teologia d’Abelardo, giudicato intemperante e fanatico nell’uso della dialettica in teologia, fino al limite di infrangere lo stesso mistero.

Si può dire che una prima manifestazione della “ragione” nel Medioevo si ritrova nell’uso delle “arti liberali”. Soprattutto da Agostino – nel “De doctrina christiana” il medioevo riceve “l’idea che le scienze o le arti profane, le arti liberali, appartengono di diritto a Cristo e che occorre ridarle al loro vero proprietario, facendole servire a un’intelligenza più approfondita delle Scritture. Gli anatemi dell’inizio contro il sapere umano non sono generalizzati e non durarono a lungo” (Congar). Questa concezione eserciterà un’influenza enorme nel pensiero medievale. La “nostra filosofia” (“Nostra philosophia”), afferma Agostino, è centrata sulle Scritture, ma il sapere umano rende dei servizi preziosi all’elaborazione di questa sapienza cristiana.

Questa concezione, attraverso Cassiodoro, Gregorio Magno e Isidoro, passerà nell’istituzione e nel regime scolastico, con Alcuino e la rinascita carolingia.

Due saranno le conseguenze del primato della sapienza cristiana e della funzione propedeutica delle arti liberali:

– Anzitutto il fatto che la “cultura medievale sarà nel suo insieme caratterizzata dal suo rapporto con la rivelazione e la salvezza, così come sarà essenzialmente una cosa di Chiesa, un bene della cristianità, poiché il mondo colto si identifica con quello dei chierici, e l’insegnamento è esclusivamente nelle mani della Chiesa. La scuola e le università obbediranno, bene o male, alla legge di questa cultura teologica e all’ideale della teologia-regina, servita e preceduta dalle arti e dalle scienze, sue ancelle” (Congar).

– Questo “cerchio” delle arti liberali, in cui viene dispiegato e contenuto tutto il sapere profano, si rivelerà sempre meno adeguato rispetto alle esigenze e ai contenuti della filosofia, della fisica, metafisica ed etica. “L’organizzazione degli studi, preconizzata da sant’Agostino e adottata nell’alto Medioevo, ha per lungo tempo ritardato il fiorire della filosofia in Occidente, a vantaggio della scienza sacra e, nel campo del sapere profano, a vantaggio delle arti liberali” (Fernand Van Steenberghen).

“La crisi di questa organizzazione scolastica, avvertita e preparata nel secolo XII, scoppierà nel secolo XIII con l’introduzione massiccia di Aristotele, coi suoi commentatori greci e arabi, cioè della scienza pagana, e verrà profondamente modificata. I quadri delle sette arti liberali saranno definitivamente spezzati: la “scienza divina” (“Divina scientia”) conserverà sostanzialmente il suo primato, ma la “scienza umana” (“Humana scientia”) comprenderà la “filosofia naturale” (“Philosophia naturalis”), la “filosofia pratica o morale” (“Philosophia practica vel moralis”), la “filosofia razionale” (“Philosophia rationalis”).” (Ferdinand Van Steenberghen). Allora le facoltà delle arti daranno un insegnamento sempre meno “formale” e sempre più “reale”: “Si sarebbero presto manifestate delle antinomie fra questo universo pagano e l’universo cristiano. Il grande dramma che domina la storia del pensiero nel XIII secolo è precisamente il conflitto dell’intelligenza cristiana con un paganesimo rinascente e minacciante. Questo conflitto si concretizza a Parigi nella crescente rivalità della Facoltà di teologia e sfocia nella grande condanna dell’aristotelismo nel 1277” (Ferdinand Van Steenberghen).

“Fermento filosofico per eccellenza” della cultura medievale  fu certamente Aristotele, dal cui ingresso in Occidente fu in particolare contrassegnata la teologia nei suoi diversi “regimi metodologici”. Si riconosce comunemente che l’opera di Aristotele fu trasmessa in Occidente in tre tappe, o con tre “entrate” (Congar).

1) La prima entrata, tramite Boezio, consiste nella “Logica vetus” ossia le “Categorie”, che è l’analisi e la classificazione delle nozioni, e il “Perí Hermeneias” (“De interpretatione”) che esamina le proposizioni. Si tratta quindi specialmente di strumenti razionali dell’analisi testuale, particolarmente graditi e adatti per una teologia intesa – com’è nell’alto Medioevo, fino a sant’Anselmo d’Aosta – quale conoscenza e commento della Bibbia e dei Padri.»

2) Con il suo secondo ingresso, ossia con la “Logica nova” e specialmente con gli “Analitici primi e Posteriori”; Aristotele si presenta maestro dell’arte del pensare. Viene introdotta nel XII secolo in Occidente una teoria del sapere e della dimostrazione. Questa teoria lascia la sua impronta sulla concezione della teologia come esigenza “razionale” (ricerca delle “ragioni”) e “questionale” (sviluppo delle “Questioni” nella “disputa” sul testo). Ecco allora una “teologia sotto il regime della dialettica” (Congar).

3) Ma il momento più critico e determinante è il terzo ingresso in Occidente di Aristotele filosofo con la sua fisica e metafisica, agli inizi del XIII secolo.

In questa terza entrata egli si pone nell’Occidente cristiano ormai come maestro della conoscenza dell’uomo e del mondo, con una metafisica, una psicologia, un’etica.

Portando una filosofia dell’uomo, della natura e delle realtà, poneva il problema della conciliabilità di una tale filosofia con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo, di Dio.

Infatti non mancò di farsi vivacemente sentire la reazione della Chiesa al riguardo. (…)

Il problema di Aristotele nella cristianità si riproporrà, e la crisi scoppierà in seguito, come appare dalle censure del 1270 e, soprattutto, del 1277, a Parigi – dopo “un’inchiesta affrettata e superficiale” (Van Steenberghen) – dalla famosa condanna di Étienne Tempier di 217 articoli, alcuni dei quali sostenuti dallo stesso Tommaso d’Aquino”.

Questi, per parte sua, se da un lato polemizzerà contro la filosofia del celebre maestro della facoltà delle arti – noi diremmo della facoltà di filosofia – Sigieri di Brabante, dall’altro sosterrà fermamente il valore della ragione, la sua importanza nella formazione dell’intelligenza, nell’elaborazione della teologia – sempre nel primato della fede -, offrendo sia una molteplicità di opere teologiche costruite con ampio uso della ragione, sia un’ampia e analitica esegesi di quasi tutte le opere di Aristotele, interpretato nel suo dato storico o secondo la sua “intenzione profonda”. Tommaso è convinto che non si danno “doppie verità”, ma due ordini diversi di verità – quelle razionali e quelle rivelate – ma sempre provenienti da una fonte, cioè Dio.

D’altronde, la “confidenza” di Tommaso nella ragione non era condivisa da tutti i teologi: così, l’orientamento agostiniano-francescano apparve più cauto, per il timore che l’uso della filosofia “pagana” compromettesse o alterasse la “purezza della fede”, come aveva scritto Gregorio IX.»

Concludendo.

La ragione, nella cultura medievale, non è un idolo da adorare incondizionatamente, non è un fine, ma uno strumento. E non è uno strumento per realizzare forme di dominio sulle cose, ma per agevolare l’«itinerarium mentis a Deo», il viaggio dell’anima verso Dio, creatore di lei e di tutte le cose e meta ultima che attrae a sé ogni realtà esistente.

Entro tali limiti, essa è stata coltivata, apprezzata, e adoperata con rara perspicacia e con sottigliezza raffinata: i pensatori del Medioevo – a cominciare  dal maggiore di tutti, Tommaso d’Aquino – non la cedono in niente ai filosofi razionalisti della modernità – Hobbes, Galilei, Cartesio, Spinoza, Leibniz -, con la differenza sostanziale, però, che essi mai considerano la ragione come qualcosa a sé stante, qualcosa che possa procedere in alternativa o addirittura in contrasto con le verità rivelate del cristianesimo.

La ragione non era neppure pensabile come alternativa alla fede, così come non era nemmeno  pensabile che l’ordine naturale dell’intelligibile potesse venire posto come alternativo all’ordine soprannaturale.

Questa era la grande forza del pensiero medievale: una salda, armoniosa, indefettibile coscienza dell’unità del mondo, della relazione necessaria esistente tra la ragione e la fede, tra l’anima e Dio. Da tale coscienza discendevano lo stupore e l’ammirazione per la bellezza del creato e la radicata persuasione che la vita è ricca di significato, pur se la ragione umana non è sempre in grado di spiegarne tutte le apparenti contraddizioni e antinomie.

NUOVE FRONTIERE DELLA SCUOLA: DIDATTICA LABORATORIALE E ALTERNANZA SCUOLA/LAVORO

dal Comunicato UCIIM del 15 febbraio 2010

Tra i punti di forza della Scuola firmata Gelmini si rilevano:

  • un più stretto collegamento con l’Università e l’Alta Formazione, con il mondo del lavoro, attraverso stage, tirocini, alternanza scuola-lavoro, e col territorio;
  • un apprendimento sempre più legato al modo di apprendere delle nuove generazioni attraverso esperienze concrete, con un utilizzo maggiore dei Laboratori (ove presenti, aggiornati e utilizzabili), in modo da rendere la scuola un centro d’innovazione permanente.

Vengono posti, dunque, al centro della Riforma: esperienza sul campo, valorizzazione dei bisogni degli studenti, ricerca, indagine critica.

In tal senso, il nuovo panorama che si apre dinanzi agli operatori dell’Istruzione sembra quello di una scuola in cui il laboratorio e il rapporto con il lavoro diventano pilastri portanti del progetto formativo.

La didattica laboratoriale, come indicato nei documenti della Riforma, parte da problemi; non prevede accumulo di nozioni; rispetta stili di apprendimento diversi; prevede un progetto; implica apprendimento e didattica cooperativi; prevede una relazione tra chi impara e chi insegna.

L’alternanza scuola/lavoro è un’opportunità utile al successo formativo e all’orientamento.

I percorsi in alternanza, infatti, se coerenti con i piani di studio, possono essere una straordinaria forma di rafforzamento delle conoscenze e di miglioramento delle abilità relative all’area dei saperi scolastici, possono stimolare scelte che sono di aiuto all’allievo per riconoscersi e orientarsi con maggior autonomia.

La progettazione della didattica laboratoriale, come quella dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, sposta la centralità operativa dalle discipline alle competenze.

Gli studenti dei Licei, degli Istituti tecnici e degli Istituti professionali potranno, così, acquisire, oltre alle conoscenze e alle competenze di base, anche le competenze spendibili nel mercato del lavoro.

SCUOLA/ Conoscenze o competenze? Superiamo la diatriba con il buon vecchio “rasoio di Ockham”

di Max Bruschi (Ilsussidiario.net)

«I nuovi programmi vietano le trite nozioni che per tanto tempo hanno aduggiato la scuola dei fanciulli; e richiedono la schietta poesia, la ingenua ricerca del vero, l’agile indagare dello spirito popolare, irrequieto e mai sazio di “perché”; il rapimento nella contemplazione dei quadri luminosi dell’arte e della vita; la comunicazione con le grandi anime, fatte vive e quasi presenti attraverso la parola del maestro (…). Se il maestro (…) sarà pedante ripetitore, la vita spirituale rifuggirà da lui e si manifesterà in quelle forme inconsapevolmente ma irreprimibilmente difensive proprie del fanciullo che sono la irrequietezza e la turbolenza».

È l’11 novembre 1923 e Giuseppe Lombardo Radice licenzia con questa premessa i “programmi” per la nuova scuola elementare. Tolto il lirismo d’antan, difficile non sottoscrivere. E difficile non considerare come, ieri e oggi, schiere di pedanti ripetitori abbiano visto “rifuggire” la vita spirituale e schiere, altrettanto nutrite, di corifei di una malintesa modernità, abbiano messo in soffitta i “quadri luminosi dell’arte” e seppellito le “grandi anime”. In mezzo, la falange di insegnati che, onestamente e umilmente, anno dopo anno, ha cercato di districarsi tra ordinanze, circolari, indicazioni, OSA, “assi”, competenze chiave e compiere al meglio la propria missione educativa e culturale.

continua http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=59444

SCUOLA/ Caro Ministro, tanti auguri e una valutazione di fine anno anche per lei

di Luisa Ribolzi (da Ilsussidiario.net)

Il web è ricco di sorprese, soprattutto per noi poveri digital immigrants, che navigando alla ventura ci imbattiamo talvolta in interessanti scoperte. Ad esempio, esiste un sito (www.buonipropositi.com) che suggerisce di inviare i buoni propositi per il nuovo anno, impegnandosi a ricordarli a chi fa poi finta di niente. Non so se il ministro Gelmini abbia fatto dei buoni propositi per il 2010, oltre a quelli lodevoli ma personali di sposarsi, diventare mamma e non perdere un sol giorno di lavoro, tutte intenzioni per cui le facciamo i migliori auguri. Proverò allora io a riguardare alcuni buoni propositi che avevo formulato lo scorso anno su queste pagine, invitando il ministro a concentrarsi su alcune cose importanti e a fissare dei traguardi precisi, piuttosto che su di un palingenetico rinnovamento dell’intero sistema (ebbene sì, ho fatto il classico nel Pleistocene e uso senza arrossire la parola “palingenetico”): invito che mi pare sia stato disatteso, in quanto il quadro complessivo si è confermato, ma gli aspetti operativi sono rimasti sottovalutati.

continua  http://www.ilsussidiario.net/articolo.aspx?articolo=58885