Il Medioevo fu un’incomparabile stagione di cultura della ragione

 di Francesco Lamendola

Se è vero – come è vero – che la storia viene scritta dai vincitori, allora si spiega come l’immagine del Medioevo tuttora prevalente nella cultura odierna, largamente dominata dalle tendenze neopositiviste e scientiste di origine illuminista, è pur sempre quella di un’età oscura, credula, superstiziosa, ove la cultura era ristretta a pochi monasteri e nei quali, ad ogni modo, la ragione era tenuta in ben scarsa considerazione.

Si tratta di una visione semplicistica, sommaria, quasi caricaturale: ma, avallata incessantemente da decine e centinaia di libri, di film, di frasi fatte e di luoghi comuni, essa tiene ancora campo non solo presso il vasto pubblico dei non specialisti, ma anche – in una certa misura – in quello degli storici di professione, degli studiosi di letteratura e di filosofia, dei cultori dell’arte e di storia della scienza.

Il pregiudizio illuminista e positivista è ben duro a morire; e, anche se il panorama del pensiero si è notevolmente modificato negli ultimi due o tre decenni, mostrando quanto fosse datato il paradigma scientista che pareva destinato a sfidare i secoli dei secoli, la suddetta visione riduttiva e denigratoria della cultura medievale è rimasta, e non vi sono molte ragioni per pensare che le cose potranno cambiare abbastanza in fretta.

Il primo pregiudizio è che esista un solo tipo di ragione: quella strumentale e calcolante. La cultura medioevale – ma, in verità, anche quella greca – la pensava altrimenti: basta leggere qualche pagina di Platone o dello stesso Aristotele per rendersene conto.

Il secondo pregiudizio è che la ragione medievale fosse ostaggio della teologia, che l’avrebbe costretta a uno stato di perenne minorità e subordinazione. Nulla di più falso: la teologia medievale si è servita al massimo grado della ragione: basti vedere l’importanza del sistema aristotelico nella formazione della Scolastica, che rappresenta il vertice di tutto il pensiero medievale.

Il terzo pregiudizio è che la cultura medievale, e particolarmente la spiritualità cristiana, abbiano diffidato della ragione, vedendo in essa quanto meno un potenziale pericolo; e che tale diffidenza abbia provocato un generale ritardo nello sviluppo della filosofia e, più ancora, delle scienze empiriche.

Ora, senza voler negare che sia esistito un lungo dibattito, all’interno della cultura medievale, sulla possibilità e sul modo di conciliare i classici, ossia la cultura pagana, con la Rivelazione, resta il fatto che, alla fine, a tale dibattito venne data una risposta ampiamente positiva. E quanto al fatto che la ragione in se stessa avrebbe costituito oggetto di diffidenza, noi siamo troppo abituati a giudicare la cosa dal punto di vista «moderno», ossia di una ragione puramente laica e immanente: ed è vero che, nei confronti di un tale modo di concepire la ragione umana, i teologi del Medioevo nutrivano una viva apprensione.

Qui, come sempre, appare palese l’impossibilità di accostarsi allo studio di un dato evento o periodo storico, senza sforzarsi di spogliarsi dei propri pregiudizi e di calarsi, per quanto possibile, entro l’orizzonte culturale e spirituale in cui quell’evento o quel periodo si svolsero. In altre parole, noi non potremo capire mai nulla del pensiero medievale se continueremo a pretendere di giudicarlo con le categorie mentali della modernità; ma esso incomincerà a mostrarci le sue bellezze e i suoi tesori se saremo capaci di restituire ad esso il clima intellettuale e spirituale che gli fu proprio, e all’interno del quale ebbero origine le forme del suo pensare.

Dunque, la prima cosa da tener presente, a questo proposito, è che la cultura medievale concepiva se stessa come una cultura cristiana; che non ammetteva la separazione tra scienza sacra e scienza profana, tra verità di ragione e verità rivelata, se non nella misura in cui fosse possibile, in ogni caso, armonizzarle e compenetrarle l’una nell’altra; che la pretesa della ragione di «fare tutto da sé», ovvero di sostituirsi alla Rivelazione e alle Scritture, era vista come la classica tentazione del peccato di orgoglio, contro la quale soprattutto occorreva stare in guardia.

In altri termini, l’uomo medievale – compresi gli intellettuali – poneva dei limiti ben precisi  al Logos strumentale e calcolante non perché fosse privo di raffinati strumenti logici e speculativi o perché avesse paura di avventurarsi fuori dall’ambito delle verità rivelate; ma perché possedeva il fermissimo convincimento che il giusto rapporto fra sé e Dio si colloca entro una prospettiva che faccia propri il senso del limite e il senso del mistero.

Pertanto, per l’uomo medievale non esistono due verità, una sacra ed una profana: la verità è una, ed è tutta sacra, perché tutta di origine divina; se egli ammetteva una divisione fra la scienza sacra e le arti liberali, era solo per ragioni pratiche e contingenti. Per lui, ogni cosa proviene da Dio e ogni cosa tende a Dio, ragione compresa; perciò, è inammissibile che la ragione voglia battere una strada che non sia in accordo con la rivelazione cristiana.

Si dirà che gli intellettuali del Medioevo, in questo modo, si autolimitavano a un punto tale, da castrare le possibilità espansive del pensiero; ma è falso.

Tanto per cominciare, gli uomini di pensiero del Medioevo non erano affatto degli “intellettuali” nel senso moderno della parola: erano tutti, o quasi, degli uomini di Chiesa, spesso membri degli ordini regolari; e, per quanto vivessero in conventi o abbazie sperduti in cima alle montagne, si sentivano più collegati al mondo di quanto non lo siano molti sedicenti intellettuali d’oggi, i quali vivono entro orizzonti mentali infinitamente più meschini e ristretti, per quanto possano essere dei gran viaggiatori e avere dimestichezza con una dozzina di università sparse nei cinque continenti.

E questo legame con il mondo veniva loro dal sentirsi strettamente uniti alla volontà di Dio e dal concepire tutta la società e tutta intera la creazione come una espressione di quella suprema volontà, a somiglianza della quale è fatta l’anima umana.

Grazie alla salda fede nell’unione con Dio e nella comunione spirituale con tutti gli esseri umani – passati, presenti e futuri, tutti usciti dalla sapiente mano divina – i pensatori medievali erano sempre collegati «organicamente» (per usare un’espressione tipicamente moderna) al reale, a tutto il reale, per quanto potessero dedicarsi, magari, all’eremitaggio o a una vita «nascosta».

La ragione, per essi, era uno strumento privilegiato col quale mettersi in ascolto della volontà divina; ma non l’unico, né il supremo: perché, ben coscienti della infinita piccolezza dell’uomo rispetto alla verità divina, credevano fermamente che con la sola ragione si può esplorare bensì l’ordine naturale delle cose, ma, per accedere a quello soprannaturale, sono necessari altri strumenti, primi fra tutti la preghiera e la contemplazione (cfr. il nostro recente articolo: «Due sono i gradi dell’intelligibile: l’uno per l’ordine naturale, l’altro per quello soprannaturale», consultabile anch’esso sul sito di Arianna Editrice).

Questo è un punto capitale, e va chiarito in maniera adeguata.

Per l’uomo moderno, figlio di quel (cattivo) maestro che è stato Francesco Bacone, «sapere è potere»: ossia, all’aumento quantitativo del suo sapere, deve corrispondere un proporzionale aumento quantitativo del suo potere sulle cose. Una volta scoperto il procedimento per effettuare una operazione chimica, fisica o biologica (scissione dell’atomo; modificazione genetica delle piante; clonazione degli esseri viventi, e così via), è impensabile non tradurre tale possibilità in realtà effettuale.

Per l’uomo medievale, le cose stanno ben diversamente. Non esiste un sapere che sia pensabile indipendentemente dal piano divino della creazione; o, se esiste, esso è di natura diabolica, perché consisterebbe in una ribellione all’ordine soprannaturale ad essa sotteso; in una pretesa dell’uomo di farsi Dio e di sostituirsi a Lui (il che è esattamente il vanto dell’uomo moderno).

Facciamo un esempio.

Oggi noi sappiamo con certezza che gli architetti medievali conoscevano da tempo il segreto delle cattedrali gotiche; che avevano calcolato da tempo, cioè, il gioco delle spinte e controspinte che avrebbe permesso loro di edificare edifici di altezza sempre maggiore, con enormi superfici riservate alle vetrate dei finestroni, scaricando il peso delle navate sugli archi rampanti e realizzando il «miracolo» di innalzare montagne di pietra come se apparissero prive di peso.

Lo sapevano, ma – ecco il punto – non lo misero in pratica per alcuni secoli. Non sappiamo perché gli architetti del periodo romanico continuarono a preferire i tozzi, massicci edifici a sviluppo prevalentemente orizzontale; e perché, a un certo punto – a  partire da un luogo ben preciso, l’Île de France – passarono allo stile gotico, a sviluppo vertiginosamente verticale, che si diffuse con prodigiosa, trionfale velocità in gran parte dell’Europa.

In questo senso, tornando alle nostre riflessioni sulla ragione, è esatto affermare che l’uomo medievale era capace di autolimitarsi: ma egli non considerava tale facoltà come un qualcosa in meno, ma come un qualcosa in più nel contesto della propria vita spirituale.

Un concetto analogo si potrebbe esprimere a proposito delle forme economiche tipiche del Medioevo, anteriormente al XII secolo e allo sviluppo dei modi di produzione capitalistici: ce ne siamo già occupati nell’articolo «Il modello economico del Medioevo forse ha ancora qualche cosa da insegnarci» (sempre sul sito di Arianna Editrice).

Il corporativismo medievale, infatti, e l’atteggiamento di diffidenza della cultura medievale verso il denaro e i facili guadagni, erano l’espressione di una società ben decisa ad autoregolarsi sulla base di un certo egualitarismo e di uno «stato stazionario» (anche qui, il contrario esatto della «crescita» e dello «sviluppo» tipici della modernità); almeno fino a quando, nel XII secolo, cominciarono a formarsi le prime grosse fortune dei mercanti e dei banchieri, che avrebbero dato vita al fenomeno politico-sociale dei Comuni.

E non è certo un caso che, per Dante – come per tutta la cultura medievale – il peccato per eccellenza dell’umanità fosse quello della cupidigia, ossia lo smodato desiderio di accumulare beni terreni, così come esso è rappresentato allegoricamente dalla terza fiera che, nel primo canto della «Divina Commedia», minaccia di divorare il poeta smarrito: la lupa.

Ecco, queste sono le caratteristiche fondamentali della ragione medievale: una ragione capace di autolimitarsi, in vista di un bene superiore ad essa; una ragione che concepisce se stessa come uno strumento per meglio avvicinarsi alle verità soprannaturali; una ragione che non vuol dominare il mondo, ma mettere l’uomo in sintonia con la verità divina: perché quello che conta, in ultima analisi, non è la sapienza di questo mondo, ma la gloria di quell’altro, cui siamo tutti incamminati (ed ecco la presenza costante del senso della morte, che stride tanto alla «delicata» sensibilità di noi moderni).

Ha scritto Inos Biffi nell’«Atlante storico della cultura medievale in Occidente» (a cura di Roberto Barbieri; Milano, Città Nuova – Jaca Book, 2007, vol. 1, pp. 124-27): “Il Medioevo nel suo complesso e nell’insieme della sua durata – con tutta l’ambiguità dei suoi confini cronologici e della stessa espressione “Medioevo” – risulta un’incomparabile stagione di cultura della ragione”.

Le forme e l’intensità di questa cultura varieranno e progrediranno, non senza conoscere momenti critici, soprattutto in relazione con la teologia, ma alla fine essa si collocherà all’interno stesso della riflessione sulla fede. Le obiezioni d’altra parte, più che nei confronti della ragione come tale, si porranno per lo più contro un certo uso della “sacra dottrina”: i “sospetti” sorgeranno specialmente da parte dell’ambiente monastico, preoccupato che il metodo della ragione e la passione o l’intemperanza razionale finiranno con il “razionalizzare” e quindi con l’alterare l’originalità stessa del mistero cristiano. Sarà l’angustia e l’apprensione di un Pier Damiani, peraltro dotato di raffinatezza e di gusto estetico singolari per la sua scrittura, o di Bernardo di Clairvaux, inquieto e allarmato, fino ad essere ingiusto, nei confronti della teologia d’Abelardo, giudicato intemperante e fanatico nell’uso della dialettica in teologia, fino al limite di infrangere lo stesso mistero.

Si può dire che una prima manifestazione della “ragione” nel Medioevo si ritrova nell’uso delle “arti liberali”. Soprattutto da Agostino – nel “De doctrina christiana” il medioevo riceve “l’idea che le scienze o le arti profane, le arti liberali, appartengono di diritto a Cristo e che occorre ridarle al loro vero proprietario, facendole servire a un’intelligenza più approfondita delle Scritture. Gli anatemi dell’inizio contro il sapere umano non sono generalizzati e non durarono a lungo” (Congar). Questa concezione eserciterà un’influenza enorme nel pensiero medievale. La “nostra filosofia” (“Nostra philosophia”), afferma Agostino, è centrata sulle Scritture, ma il sapere umano rende dei servizi preziosi all’elaborazione di questa sapienza cristiana.

Questa concezione, attraverso Cassiodoro, Gregorio Magno e Isidoro, passerà nell’istituzione e nel regime scolastico, con Alcuino e la rinascita carolingia.

Due saranno le conseguenze del primato della sapienza cristiana e della funzione propedeutica delle arti liberali:

– Anzitutto il fatto che la “cultura medievale sarà nel suo insieme caratterizzata dal suo rapporto con la rivelazione e la salvezza, così come sarà essenzialmente una cosa di Chiesa, un bene della cristianità, poiché il mondo colto si identifica con quello dei chierici, e l’insegnamento è esclusivamente nelle mani della Chiesa. La scuola e le università obbediranno, bene o male, alla legge di questa cultura teologica e all’ideale della teologia-regina, servita e preceduta dalle arti e dalle scienze, sue ancelle” (Congar).

– Questo “cerchio” delle arti liberali, in cui viene dispiegato e contenuto tutto il sapere profano, si rivelerà sempre meno adeguato rispetto alle esigenze e ai contenuti della filosofia, della fisica, metafisica ed etica. “L’organizzazione degli studi, preconizzata da sant’Agostino e adottata nell’alto Medioevo, ha per lungo tempo ritardato il fiorire della filosofia in Occidente, a vantaggio della scienza sacra e, nel campo del sapere profano, a vantaggio delle arti liberali” (Fernand Van Steenberghen).

“La crisi di questa organizzazione scolastica, avvertita e preparata nel secolo XII, scoppierà nel secolo XIII con l’introduzione massiccia di Aristotele, coi suoi commentatori greci e arabi, cioè della scienza pagana, e verrà profondamente modificata. I quadri delle sette arti liberali saranno definitivamente spezzati: la “scienza divina” (“Divina scientia”) conserverà sostanzialmente il suo primato, ma la “scienza umana” (“Humana scientia”) comprenderà la “filosofia naturale” (“Philosophia naturalis”), la “filosofia pratica o morale” (“Philosophia practica vel moralis”), la “filosofia razionale” (“Philosophia rationalis”).” (Ferdinand Van Steenberghen). Allora le facoltà delle arti daranno un insegnamento sempre meno “formale” e sempre più “reale”: “Si sarebbero presto manifestate delle antinomie fra questo universo pagano e l’universo cristiano. Il grande dramma che domina la storia del pensiero nel XIII secolo è precisamente il conflitto dell’intelligenza cristiana con un paganesimo rinascente e minacciante. Questo conflitto si concretizza a Parigi nella crescente rivalità della Facoltà di teologia e sfocia nella grande condanna dell’aristotelismo nel 1277” (Ferdinand Van Steenberghen).

“Fermento filosofico per eccellenza” della cultura medievale  fu certamente Aristotele, dal cui ingresso in Occidente fu in particolare contrassegnata la teologia nei suoi diversi “regimi metodologici”. Si riconosce comunemente che l’opera di Aristotele fu trasmessa in Occidente in tre tappe, o con tre “entrate” (Congar).

1) La prima entrata, tramite Boezio, consiste nella “Logica vetus” ossia le “Categorie”, che è l’analisi e la classificazione delle nozioni, e il “Perí Hermeneias” (“De interpretatione”) che esamina le proposizioni. Si tratta quindi specialmente di strumenti razionali dell’analisi testuale, particolarmente graditi e adatti per una teologia intesa – com’è nell’alto Medioevo, fino a sant’Anselmo d’Aosta – quale conoscenza e commento della Bibbia e dei Padri.»

2) Con il suo secondo ingresso, ossia con la “Logica nova” e specialmente con gli “Analitici primi e Posteriori”; Aristotele si presenta maestro dell’arte del pensare. Viene introdotta nel XII secolo in Occidente una teoria del sapere e della dimostrazione. Questa teoria lascia la sua impronta sulla concezione della teologia come esigenza “razionale” (ricerca delle “ragioni”) e “questionale” (sviluppo delle “Questioni” nella “disputa” sul testo). Ecco allora una “teologia sotto il regime della dialettica” (Congar).

3) Ma il momento più critico e determinante è il terzo ingresso in Occidente di Aristotele filosofo con la sua fisica e metafisica, agli inizi del XIII secolo.

In questa terza entrata egli si pone nell’Occidente cristiano ormai come maestro della conoscenza dell’uomo e del mondo, con una metafisica, una psicologia, un’etica.

Portando una filosofia dell’uomo, della natura e delle realtà, poneva il problema della conciliabilità di una tale filosofia con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo, di Dio.

Infatti non mancò di farsi vivacemente sentire la reazione della Chiesa al riguardo. (…)

Il problema di Aristotele nella cristianità si riproporrà, e la crisi scoppierà in seguito, come appare dalle censure del 1270 e, soprattutto, del 1277, a Parigi – dopo “un’inchiesta affrettata e superficiale” (Van Steenberghen) – dalla famosa condanna di Étienne Tempier di 217 articoli, alcuni dei quali sostenuti dallo stesso Tommaso d’Aquino”.

Questi, per parte sua, se da un lato polemizzerà contro la filosofia del celebre maestro della facoltà delle arti – noi diremmo della facoltà di filosofia – Sigieri di Brabante, dall’altro sosterrà fermamente il valore della ragione, la sua importanza nella formazione dell’intelligenza, nell’elaborazione della teologia – sempre nel primato della fede -, offrendo sia una molteplicità di opere teologiche costruite con ampio uso della ragione, sia un’ampia e analitica esegesi di quasi tutte le opere di Aristotele, interpretato nel suo dato storico o secondo la sua “intenzione profonda”. Tommaso è convinto che non si danno “doppie verità”, ma due ordini diversi di verità – quelle razionali e quelle rivelate – ma sempre provenienti da una fonte, cioè Dio.

D’altronde, la “confidenza” di Tommaso nella ragione non era condivisa da tutti i teologi: così, l’orientamento agostiniano-francescano apparve più cauto, per il timore che l’uso della filosofia “pagana” compromettesse o alterasse la “purezza della fede”, come aveva scritto Gregorio IX.»

Concludendo.

La ragione, nella cultura medievale, non è un idolo da adorare incondizionatamente, non è un fine, ma uno strumento. E non è uno strumento per realizzare forme di dominio sulle cose, ma per agevolare l’«itinerarium mentis a Deo», il viaggio dell’anima verso Dio, creatore di lei e di tutte le cose e meta ultima che attrae a sé ogni realtà esistente.

Entro tali limiti, essa è stata coltivata, apprezzata, e adoperata con rara perspicacia e con sottigliezza raffinata: i pensatori del Medioevo – a cominciare  dal maggiore di tutti, Tommaso d’Aquino – non la cedono in niente ai filosofi razionalisti della modernità – Hobbes, Galilei, Cartesio, Spinoza, Leibniz -, con la differenza sostanziale, però, che essi mai considerano la ragione come qualcosa a sé stante, qualcosa che possa procedere in alternativa o addirittura in contrasto con le verità rivelate del cristianesimo.

La ragione non era neppure pensabile come alternativa alla fede, così come non era nemmeno  pensabile che l’ordine naturale dell’intelligibile potesse venire posto come alternativo all’ordine soprannaturale.

Questa era la grande forza del pensiero medievale: una salda, armoniosa, indefettibile coscienza dell’unità del mondo, della relazione necessaria esistente tra la ragione e la fede, tra l’anima e Dio. Da tale coscienza discendevano lo stupore e l’ammirazione per la bellezza del creato e la radicata persuasione che la vita è ricca di significato, pur se la ragione umana non è sempre in grado di spiegarne tutte le apparenti contraddizioni e antinomie.

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