Addio a Hillman

di Silvia Ronchey
Fonte: La Stampa
28/10/2011

«James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte.
Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».
Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926.
Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005 “Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande. Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia.
Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut. Conosceva non solo molte lingue – incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava – ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.
A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima aLa forza del carattere aUn terribile amore per la guerra .
Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo». Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.
Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi – anche se non voleva la si chiamasse così – di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.
L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso – in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio – in termini alchemici. Le immagini del processo di dissolutio ecoagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano – la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore – dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.
Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno – Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici – potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui. Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.
Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku.
«Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».

L’anima dell’Europa cominciò a scomparire quando non si eressero più le cattedrali

di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice

L’Europa possiede ancora un’anima?
Probabilmente no: quel che restava di essa è stato spazzato via dalle due guerre mondiali e specialmente dai deliberati, sistematici, criminali bombardamenti aerei alleati, che hanno cancellato, insieme alla vita di centinaia di migliaia di persone innocenti, le ultime vestigia di una antica e gloriosa civiltà: i musei, le biblioteche, le ville, i palazzi, le cattedrali… Già, le cattedrali: quella straordinaria, incomparabile foresta di pietra vivente che un soffio potentissimo di spiritualità eresse, nel cuore del Vecchio continente, nell’arco di circa tre secoli, dal Mille al Milletrecento; precedute, a loro volta, da una grandiosa, spettacolare fioritura monastica, che disseminò ovunque conventi e abbazie e che attrasse migliaia e migliaia di giovani d’ambo i sessi verso un ideale ascetico e altamente spirituale.
Le grandi cattedrali gotiche sono il monumento più straordinario che la civiltà europea abbia mai innalzato all’Assoluto e, al tempo stesso, la più commovente testimonianza resa da quella civiltà alla nostalgia della propria parte migliore: il richiamo dell’Essere, di quel Primo Motore e di quel Centro cosmico che, per le creature terrene, è come l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine di ogni cosa ed il senso ultimo di tutto ciò che esiste.
Con buona pace della Vulgata illuminista e neoilluminista, secondo la quale vi è poco o nulla da salvare nei secoli del “buio Medioevo”, mai come allora il nostro continente è stato vivo e pulsante di fede, di operosità, di ricerca della verità: quando persone d’ogni ceto e d’ogni età si mettevano in cammino, a piedi, per San Giacomo di Compostella o per Monte San’Angelo (il computer mi segna come errore la parola “Compostella”: fino a questo punto è giunto l’oblio delle proprie radici, propiziato dalla barbarie tecnologica); e quando dai conventi alle università si spandeva, come un fiume armonioso e possente, la filosofia di San Tommaso d’Aquino, supremo sforzo di conciliazione della cultura cristiana con quella greca e mirabile architettura spirituale, nata e pensata per misurarsi coi millenni, non – come la maggior parte delle filosofie contemporanee – con gli anni o, magari, i mesi… La decadenza dell’Europa è incominciata quando quel meraviglioso soffio di spiritualità ha incominciato a spegnersi; quando i suoi abitanti hanno smesso di costruire le cattedrali (anche se hanno continuato ad erigere templi, ma ormai non più segni di preghiera slanciati verso il Cielo, bensì vuoti simulacri per celebrare la maestria del singolo architetto); quando l’anima delle persone ha perso il proprio centro e si è dispersa in una quantità di richiami, di brame e di appetiti disordinati e distruttivi.
È stato allora, fra il XIV e il XV secolo, quando l’astuzia del banchiere ha definitivamente sopraffatto e spodestato la nobiltà d’animo dell’asceta o del guerriero (che magari erano la stessa persona, come nel caso dei cavalieri templari) e quando la Chiesa è venuta a patti col mondo dei valori borghesi, lasciando cadere la sua secolare condanna dell’usura, che l’Europa ha incominciato a perdere la propria anima.
Dopo di allora, la sua storia non è stata che quella di una lenta agonia; anche se ciò è passato, paradossalmente, quasi inosservato, perché proprio a partire da quell’epoca è iniziata la sua spettacolare espansione produttiva, commerciale, militare, scientifica e tecnologica, che le ha consentito di sottomettere gran parte del mondo e di proclamare la propria come la migliore delle civiltà possibili, dalla quale ogni altra aveva solo da imparare (quando addirittura non meritava la distruzione fisica, come più volte accadde).
Dopo di allora, l’Europa ha smesso di generare giganti dello spirito come San Francesco, giganti del pensiero come Dante, giganti dell’arte come Giotto; ed è incominciata la generazione dei nani presuntuosi e maligni, dei quali è bello tacere gli stessi nomi, anche perché il loro numero è legione e non accenna a diminuire: queste anime brutte, rachitiche, crudeli, che sanno solo distruggere, dissacrare e gettare su ogni cosa l’ombra dei peggiori sospetti.
Se, percorrendo le navate di una cattedrale gotica, si alza lo sguardo verso la controfacciata e ci si lascia abbagliare dalla luce che filtra attraverso il rosone, non si può non percepire, oltre alla perfetta sapienza costruttiva, anche il significato simbolico e mistico della ruota, che ricorre anche in mille e mille sculture, pitture, mosaici: di quella ruota che è, al tempo stesso, simbolo di movimento, di vita, di progresso spirituale e di ritorno al cuore della realtà, al cure dell’Essere, a quel Motore Immobile dal quale ogni cosa ha ricevuto inizio.
E non è certo un caso che l’immortale poema dantesco, summa e coronamento di tutto il sapere medievale, si concluda con l’immagine di una ruota che gira con movimento uguale ed armonioso, riassumendo in se stessa quanto vi è di geometricamente perfetto, come il cerchio, e di nobilmente mobile e progressivo:

«All’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 142-45).

Scrive Angelo Terenzoni nel libro «L’universo simbolico della cattedrale. San Lorenzo di Genova» Genova, Edizioni Alkaest, 1980, pp.
13-15):

«Espressione di un cosmo ordinato attorno al Primo Motore e di una tensione verso l‘alto attuantesi nel raggiungimento del centro dello stato umano e da lì ascendente verso gli stati superiori dell’essere, la cattedrale rappresenta una realizzazione artistica che affonda le sue radici in un “humus” tradizionale nel quale venga mantenuto un costante collegamento tra metafisica e religione, ove sia cioè possibile, a chi ne è qualificato, di trascendere, pur senza annullarla, tale ultima dimensione e così fare riferimento alla sfera dei principi. Opera di centri iniziatici coscienti di una simile gerarchia di livelli conoscitivi, tale collegamento si esaurì con essi e col venire alla ribalta dell’individualismo, il quale si realizzò pienamente con Umanesimo e Rinascimento; il primo pose l’uomo infatti al centro dell’universo ed a Lui ricondusse ogni cosa, tagliando il filo collegante l’essere umano al suo Principio, mentre il secondo ne fu un’immediata conseguenza nell’arte e diede inizio ad un processo involutivo, al termine del quale l’artista si sarebbe scoperto una miserevole nullità, uno spettro schiavo degli impulsi psichici ed ormai condannato a vagare nella dimensione infraumana.
L’arte postmedievale si caratterizza quindi per la perdita di quel centro che l’artefice del Medioevo ebbe sempre ben vivo e presente ed attorno al quale fa ruotare il suo universo simbolico, riconducendo il tutto nell’ambito sacro del tempio, immagine del cosmo e perciò visione totalitaria della realtà, Il Rinascimento disperde questa armonia e questa sintesi, spargendo le opere d’arte in ogni punto che piaccia all’individuo e dove esse ne soddisfano il gusto estetico; su questa via si smarrisce completamente l’idea della forma e la figura umana, dall’arte medievale riassunta nell’immagine del Cristo Verbo Incarnato, si snatura, sino a divenire un’accozzaglia di linee e di ghirigori, di nasi e di bocche mostruosi, piazzati su visi dalla più aberrante forma. È questa la perdita di un centro simbolicamente esprimibile collo sfasciamento della Ruota, i cui frammenti si disperdono all’intorno, sino al dissolversi nel nulla inferiore; ma, accanto, ad una inesorabile dissoluzione, la quale appare conforme peraltro alle leggi cicliche, vi sono delle ripercussioni sulle organizzazioni dei costruttori delle cattedrali e sulla liturgia religiosa.
Sdi ha tuttavia, in questi due casi, solo un occultamento del centro, in quanto la Ruota resta sempre ben salda nella sua interezza; vi è comunque un riflusso sul contorno, come effetto del venir meno dei centri iniziatici vivi e operanti in seno alla Tradizione Medievale.
Così le corporazioni dei costruttori, a partire dal XV secolo, entrano in una fase di fluidità, al termine della quale verrà alla luce la Massoneria, fiera nemica del Cattolicesimo e fattiva parte nella formazione del mondo moderno. Si ha, in poche parole, un continuo coinvolgimento nella molteplicità ed un mutamento di azione per adattarla alle contingenti realtà, il tutto come effetto dell’abbandono dell’operatività, quest’ultima condizione unica ed imprescindibile per il raggiungimento del centro. La massoneria conserva comunque il rituale degli antichi costruttori ed i suoi simboli sono in grado di riacquistare tutto il loro valore, una volta che verrà attuato il ritorno all’operativo, come effetto derivato di una primaria ed imprescindibile restaurazione tradizionale muovente dai principi metafisici.
In campo cattolico, alla cattedrale segue la chiesa barocca della Controriforma, la cui struttura pesante ed intonacata esprime la sclerotizzazione di un mondo, mentre i cieli tempestosi delle sue volte danno l’idea di una tensione interore priva di sbocco verso
l’alto: è infatti questo un contesto in cui la dimensione esoterica è perduta ed in cui regna sovrano il più bieco esclusivismo religioso.
Purtuttavia la fede delle masse appare salda e la liturgia, coi suoi cori, il suo incenso e le sue luci, è in grado di trasmettere all’individuo una tensione sentimentale che ne appaga le esigenze devozionali, dandogli la chiesa un senso di sicurezza e di protezione.
La modernizzazione del cerimoniale attuata dal Concilio Vaticano II, come effetto del recepimento delle dissacrate motivazioni esistenziali del mondo moderno, toglie al rito tale capacità di appagamento, trasformando la chiesa in una sala di adunanza comunitaria, ove la celebrazione delle lingue nazionali e gli sdolcinati inni, privo di significato, sono il risultato di una simile “protestantizzazione”.
Dell’espressione liturgica. Il tempio perde allora la sua natura di luogo ove attuare l’elevazione verso l’alto e diviene una sola ed unica navata, al cui centro sta un altare rivolto verso i fedeli, ove il celebrante spesso si compiace di sentirsi “uno dei tanti” e, in questa sua follia, smarrisce il senso del rito della Messa che, come sacerdote, ripete continuamente.
Individualismo artistico, Massoneria e liturgia postconciliare costituiscono quindi, seppure con sfumature diverse, altrettanti aspetti di una degenerazione e, come tali, esprimono una realtà profondamente diversa rispetto al’epoca in cui l’arte trovava il suo fine ultimo nella conoscenza ed i costruttori delle cattedrali ne attualizzavano operativamente i suoi canoni, elevando monumenti ove ilo rito rifletteva una centralità indefinitamente recuperabile. Il ritorno ad una simile armonica sintesi, nella quale un centro immobile governa ogni cosa, non appare tuttavia un’impossibilità esistenziale – e la cattedrale si staglia ad immagine viva di una restaurazione da attuare – restaurazione che avrà tuttavia un senso – ed è bene sempre ribadirlo – nella misura in cui la luce della conoscenza metafisica brillerà di nuovo nell’Occidente, distruggendo ogni individualismo, “scacciando i mercanti dal Tempio” e ridando al Cattolicesimo quell’apertura verso l’alto che ne fa una tradizione “conforme ai principi”, in linea cole parole di Cristo a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa”.»

Tirando le somme dall’esperienza degli ultimi sette secoli, si può dire che da quando gli uomini hanno voltato le spalle al Motore Immobile e, con esso, all’idea di un Cosmo vivo e ordinato, per sostituirla con quella di una casuale aggregazione della materia, senza senso e senza scopo, non hanno fatto altro che preparare, dietro gli effimeri successi della scienza e della tecnica, la propria caduta morale e spirituale.
Vi è ancora spazio per nutrire la speranza di una ripresa, di una rinascita, di una ricostruzione dell’anima dell’Europa e, con essa, dell’uomo contemporaneo?
Dal punto di vista puramente razionale, bisogna ammetterlo, le speranze sono deboli. E tuttavia: nessuna speranza è morta del tutto, finché anche un solo essere umano custodisce e alimenta, nel tesoro della propria anima immortale, il sogno eterno della Verità, della Bontà e della Bellezza…

Anima Mundi

di Eduardo Zarelli
Fonte: Arianna Editrice

I luoghi hanno un’anima, dice Hillman nel suo saggio L’anima dei luoghi. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana. Un tempo, nell’antichità, le potenze apparivano in luoghi specifici: sotto un albero, presso una sorgente, un pozzo, su una montagna, in un pianoro, all’ingresso della tana di un serpente.
Gli uomini circondavano il luogo di pietre: per proteggere la sua interiorità. Nascevano i templi; consacrati a queste divinità: gli Àuguri ritualizzando il Genius loci fondavano le città.
Oggi, il funzionalismo razionalistico cela l’interiorità dei luoghi.
Vediamo ciò che appare, le facciate dei palazzi, il manto urbano, i campi pianificati a giardino o monocoltura e dimentichiamo che là sotto c’è una topografia dinamica, interiore, fatta di sentimenti e memorie, figure e forze, fantasie e pensieri. Prendiamo un paese meridionale, le mura bianche riverberano di luce solare e i portoni ostinatamente chiusi nascondono all’indiscreto le preziose atmosfere intimistiche dell’urbanità siciliana. «La facciata – scrive Hillman – non è niente di speciale, ma dietro si trova il cortile, il giardino protetto da alti muri, la piccola fontana». Quello è il dentro del luogo.
Le culture tradizionali erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo. Rispettare un “territorio”, proteggendolo ecologicamente invece di distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.
Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura involontariamente ecologica delle forme di civiltà.
In un’epoca nella quale domina l’artificio e la superficialità, basata sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa scorgere la profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione
utilitaristica: per spingerci dentro le cose, per discernere la manifestazione dell’essere nella narcotica nauseante ridondanza dell’edonismo consumista. E conoscere quello che il daimon del luogo ci dice: a cominciare dalle sue ferite che non possono, non devono, essere cancellate dal tempo. L’architettura può aiutarci nell’aderire all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la sua razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive, all’autenticità del luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da sé. La natura indica perentoriamente, il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé – per dirla con James Hillman – può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura.
Quasi tutto, del resto, è nascosto: la profondità contempla distanze che la nostra mente neppure immagina. E conduce al mondo infero.
Questo è il mondo dei sogni. Freud e Jung – sostiene Hillman ne Il sogno e il mondo infero – pensarono di strappare l’anima da questo suo amplesso col mondo notturno e di poter interpretare i sogni col linguaggio della veglia.
Volevano spingere i sogni verso la luce del giorno. Vedevano nei sogni le spiegazioni della vita diurna e dei suoi “incubi” consci, il completamento archetipico della personalità, l’appagamento dell’istinto sessuale, le premonizioni, i «residui» della vita quotidiana. Noi dobbiamo fare l’esatto contrario: come l’architetto è opportuno che ascolti la «voce» del luogo e non sovrapponga a codesta voce la sua mente, così sarà opportuno ascoltare la «voce» del sogno.
E abbandonare la luce apparentemente chiarificatrice del giorno. I sogni, scrive Hillman con un’immagine wagneriana seducente, «sono opera di gnomi che lavorano la notte, fabbri del mondo infero che forgiano labirinti, artigiani che non smettono mai di creare forme».
Sovente, queste forme sono ambigue, indecifrabili, oscure. Se vogliamo entrare in profondità in un sogno, dobbiamo abbandonare il linguaggio del mondo diurno e penetrare nel sogno, avendo come unica guida la luce della notte. In questa dimora, tutto ciò che sappiamo della vita non serve. Qui, le pulsioni sono assai più profonde di quelle della carne e del sangue; l’istinto che ci sospinge all’interno della nostra ombra è assai più rapinoso dell’istinto della conservazione, o del mistero del sesso, ridotto a cupidigia sensistica. È l’istinto della morte. Ma non della morte fisica: quello è, appunto, un concetto diurno. È l’istinto della morte come attrazione verso il totalmente inconoscibile, il totalmente oscuro, che per eterogenesi ci apre le strade alla conoscenza ulteriore ai dualismi tra soggetto e oggetto, spirito e materia, vita e morte. La missione di Cristo nel mondo infero – scrive Hillman – consistette nell’oltrepassarlo con la sua resurrezione, con la vittoria sopra la morte. Ogni religiosità fondata sulle radici eterne del sacro propone una resurrezione come significato ed oltrepassamento della morte. L’oscurità, invece, esige
unilateralismi: s’introduce speculativamente nel profondo dei significati senza risolverli, rimuovendoli e soggiacendo a quel buio nel quale stanno ancora acquattate le belve mitologiche – le gorgoni, le sfingi – con le quali, fin dai tempi più antichi, gli uomini hanno cercato risposte alle proprie inquietudini esistenziali, nel tentativo di costruire un mondo rassicurante e opposto, luminoso, un mondo spiegabile e positivo, moralistico.
È comprensibile che l’uomo da questo buio si ritragga sgomento: che la vita umana sia una disperata, vana fuga dall’oscurità. E che i sogni, spesso, facciano paura. Ma non bisogna temere ciò che ci costituisce.
Non esiste giorno senza notte, e viceversa. La totalità è superiore alla somma funzionale delle singole parti. La forza del simbolo si radica nella ragione che anela alla conoscenza e non si diminuisce in protesi analitica e strumentale. Hillman ci ricorda da oltre un trentennio che gli Dei, defunti nel disincanto contemporaneo, riaffiorano inquieti nelle nostre patologie psicologiche, culturali e sociali. La via per ritrovare se stessi transita per il riconoscimento dell’anima del mondo. Quest’ultima si coglie per empatia, ricomponendo nell’equilibrio del Sé, introversione ed estroversione, profondità spirituale e pratica sociale, persona e collettività nel sentire comune l’identità cosmogonia, simbolica, della comunità.
L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso.
In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi,
responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma contribuisce all’armonia del tutto.
Quando Thoreau afferma che «nella natura selvaggia sta la preservazione del mondo», intende affermare che una corretta disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia noi sia la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza dell’azione o del discorso. L’abbandono di ogni volontà assimilazionistica riconosce e rispetta la diversità delle identità.
In quest’approccio ritroviamo composta la drammatica frattura dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica. La visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un paradigma scientifico olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti.
Una scienza dei “legami vitali”, che declini il sapere e l’agire nella coerenza della natura.

citazione

Osservate più spesso le stelle.

Quando avrete un peso nell’animo, quando vi sentirete tristi, intrattenetevi con il cielo.

Allora la vostra anima troverà la quiete.

(Pavel A. Florenskij)

Il senso del limite

di Alain de Benoist

Fonte: Arianna Editrice

Le società antiche capivano che non c’è vita sociale possibile senza considerare l’ambiente naturale. Citando Catone («Piantar l’albero per chi seguirà»), Cicerone scrive nel De senectute: «Alla domanda “Perché lo pianti?”, risponde senza esitare: “Gli Dei immortali vogliono che ereditare dagli ascendenti non mi basti, ma che anche trasmetta ai discendenti” (7, 24). La riproduzione durevole è stata infatti regola d’ogni cultura fino al XVIII secolo. Ogni contadino di una volta era un inconsapevole esperto in «sostenibilità». Ma anche i poteri pubblici spesso lo erano: Colbert regolava il taglio dei boschi per la ricostituzione delle foreste, facendo piantare querce che dessero legno alle navi trecento anni dopo.

I moderni hanno agito all’inverso, comportandosi come se le «riserve» naturali fossero moltiplicabili all’infinito – come se il pianeta, in ogni sua dimensione, non fosse uno spazio finito. In ogni attimo del presente hanno impoverito l’avvenire, consumando a oltranza il passato.

Il XX secolo è stato definito in vari modi: come secolo dell’ingresso nell’era atomica, della decolonizzazione, della liberazione sessuale, degli «estremi» (Eric Hobsbawm), della «passione del reale» (Alain Badiou), del trionfo della «metafisica della soggettività» (Heidegger), della tecnoscienza, della globalizzazione, ecc. Il XX secolo è stato certo tutto questo. Ma è anche il secolo dell’apogeo del consumismo, della devastazione del pianeta e, per contraccolpo, della preoccupazione ecologica. Per Peter Sloterdijk, che caratterizza la modernità col «principio sovrabbondanza», il XX secolo è stato innanzitutto il secolo dello spreco. Scrive: «Mentre, per la tradizione, lo spreco era il peccato per antonomasia contro lo spirito di sussistenza, mettendo in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, un profondo cambio di senso è avvenuto attorno allo spreco dell’era delle energie fossili: si può dire che oggi lo spreco sia il primo dovere civico. Il divieto di frugalità, che ha sostituito il divieto di spreco, s’esprime nei costanti appelli per sostenere la domanda interna».Non si confonda lo spreco con la spesa ostentata, già tipica delle vecchie aristocrazie. Infatti essa non si separava mai da un elemento di gratuità e generosità, totalmente mancante nella società mercantile attuale. Adam Smith definiva ancora lo spreco come un cedere alla «voglia di godere l’istante». E nella vecchia borghesia la frugalità era ancora un valore cardinale, come elemento d’accumulazione del capitale. Col capitale che s’alimenta da solo, come oggi, e crea sempre nuovi valori, da tempo il tappo è saltato. L’obsolescenza programmata dei prodotti è l’uno dei principi dello spreco.

All’inizio del XXI secolo, che s’annuncia come il secolo dove il «fluido» (Zygmunt Bauman) tende a sostituire ovunque il solido – come l’effimero sostituisce il duraturo, come le reti sostituiscono le organizzazioni, le comunità le nazioni, i sentimenti transitori le passioni di un’intera vita, gli impegni puntuali le vocazioni immutabili, gli scambi nomadi i rapporti sociali radicati, la logica del Mare (o dell’aria) quella della Terra -, si constata che l’uomo avrà consumato in un secolo riserve costituite dalla natura in trecento milioni d’anni. Se ne traggano le conclusioni.

Ipazia

Ipazia profuma di mistica cosmica
di Franco Cardini – 23/01/2011

Fonte: Il Sole 24 ORE

Non è certo un male che si torni a parlare di Ipazia, la bella e giovane filosofa e scienziata alessandrina uccisa ai primi del V secolo da una banda di fanatici cristiani. Se davvero il mandante fu il vescovo Cirillo, la cosa non è priva di rilievo e fonte di imbarazzo: Cirillo d’Alessandria è dottore  della Chiesa e, soprattutto, è stato canonizzato.

Una donna giovane, bella, colta, intelligente fatta ammazzare è un tema troppo conturbante, troppo  ghiotto, perché non vi si siano buttati sopra in tanti. A cominciare da Diderot e da Voltaire. Negli ultimi mesi, un film di Amenabar, Agorà, ha fatto discutere perché è sembrato che vi si adombrasse, con una certa superficialità, la tesi di Ipazia donna “moderna’ avant la lettre, una specie di  anticipatrice di Galileo e dell’illuminismo, vittima dell’eterno fanatismo fondamentalista.

Sull’argomento, che ha visto uscire parecchi saggi e anche un romanzo firmato da Maria Moneti  Codignola, è fresco di stampa, il libro di Silvia Ronchey, bizantinista dell’Università di Siena e scrittrice  di molti best seller.

Ipazia traccia un ampio e seducente quadro della vita culturale alessandrina ed ellenistico-romana del V secolo, ribadendo una volta di più che non si trattò per nulla di un secolo di “decadenza’ e che
non è affatto vero che il cristianesimo fu uno dei fattori determinanti di quella decadenza e di quella caduta, entrambi mai verificatesi.

Silvia Ronchey queste cose le dice da studiosa, senza l’aria di scoprir nulla di nuovo ma con la serena semplicità di una specialista che ha riconsiderato le fonti del Caso-Ipazia e che intende esporlo
inserendolo in un vivo contesto di fatti e d’idee. Nell’Alessandria del V secolo la vita intellettuale, politica e religiosa era vivissima. E vero che qualche decennio prima i cristiani iispirati dal vescovo Teofilo erano riusciti a distruggere un museo-biblioteca-santuario come il Serapeion, ma i termini della contesa non erano affatto quelli dello scontro tra un paganesimo colto e lungimirante e un cristianesimo rozzo, ignorante e fanatico. Al contrario, esisteva un comune ambiente culturale nel quale si muovevano cristiani e pagani convivendo e discutendo, senz’ombra di odio o di pregiudizio, anzi con la consapevolezza che le loro differenti opzioni religiose appartenevano a una medesima civiltà, ch’essi condividevano. Accanto a esso v’era anche il cristianesimo duro e intransigente che si appoggiava a frequenti incursioni di monaci squadristi che provenivano dal deserto, nonostante le leggi teodosiane vietassero loro di dimorare in città. Ed esisteva una numerosa, ricca, colta, influente comunità ebraica, forse ben più dei pagani la vera concorrente del cristianesimo.

Silvia Ronchey inquadra il suo studio sulla personalità di Ipazia in questo contesto d’incontri e di tensioni. La scienziata-filosofa finì col collocarsi obiettivamente al centro d’un gioco arduo e complesso, coprotagonisti del quale erano due suoi amici, allievi ed estimatori, il proconsole Oreste e un altro giovane esponente della Chiesa, Sinesio di Cirene, e un avversario, il vescovo Cirillo, ben deciso a ostacolare la convivenza tra religioni e visioni del mondo diverse nel nome della purezza della fede.

La Ronchey è convinta che Cirillo sia stato il mandante dell’assassinio di Ipazia e lo dimostra attraverso un’attenta escussione delle fonti. Non che ciò sgombri il campo a tutti i dubbi: del resto, molte sono le cose nella storia che tecnicamente è impossibile provare. Ma non è questo, a mio avviso, l’aspetto più interessante del libro: che invece ha soprattutto due meriti precipui.

Primo: traccia un profilo originale e interessante della “fortuna” culturale e letterale di Ipazia, chiedendosi anche perché il suo assassinio non sia annoverato fra le colpe di cui la Chiesa dovrebbe
“chiedere scusa”. Ipazia fa parte integrante d’una linea culturale limpida e robusta, che coinvolge cristiani e pagani e che giunge fino a Fozio, a Psello e, nel Quattrocento, a Gemisto Pletone.

Secondo: sottolinea che solo un gravissimo equivoco ha potuto fare di Ipazia una precorritrice del razionalismo moderno. Essa era una rappresentante del pensiero neoplatonico, con tutta la sua carica di misticismo cosmico. La sua contesa con Cirillo era quella tra due differenti visioni sacrali dell’universo e la vita, non la polemica tra un fanatico religioso e una scienziata illuminista.  L’insistenza su questo dato non è merito dappoco, in quanto si oppone a tutte le anacronistiche rivisitazioni che d’Ipazia si sono ultimamente presentate e ricolloca la filosofa di Alessandria nel contesto storico che le compete.

Ipazia, la vera storia, Silvia Ronchey Rizzoli, Milano pagg. 318 t 19,00

Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita

di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice

L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale, sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti), nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta, padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e, di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose e della vita; non limitandosi – però – alla dimensione del pensiero logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose, ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner, apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla Editore, 1974, pp. 144-46):

«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti, l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con i suoi antenati oppure con i suoi “totem” – ad un tempo natura, sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio, sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne, che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare “centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura, l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei “primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto, le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia sacra”.»

Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e, del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo; episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni, addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon), dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo, dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla frustrazione di essere membri di una società esasperatamente individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare, almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che, nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso, il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto, una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.

La morte filosofica

di Paolo Vicentini – 24/06/2010

Fonte: In Quiete

 

È veramente difficile comprendere la filosofia antica – non solo quella occidentale, ma anche quella orientale – senza tener conto della sua componente pratica, del suo essere non speculazione astratta, ma modo di vita volto alla realizzazione della sapienza.

Anche la lettura dei testi filosofici, nell’antichità, rientrava nell’ambito di una disciplina spirituale, di un esercizio propedeutico alla saggezza. Nella scuola platonica, ad esempio, l’ordine di lettura dei dialoghi di Platone non doveva affatto essere casuale. Scrive un noto testo platonico in passato attribuito ad Olimpiodoro: “Il primo da prendere in esame è l’‘Alcibiade’, perché in questo dialogo impariamo a conoscere noi stessi […], l’ultimo invece è il ‘Filebo’, perché vi si parla del Bene […]. Quanto a quelli che vengono considerati nel mezzo, devono essere posti nell’ordine seguente:

poiché vi sono cinque virtù di profondità vieppiù crescente, naturali, etiche, politiche, catartiche, teoretiche, bisogna leggere prima il ‘Gorgia’, testo politico, seguito dal catartico ‘Fedone’; infatti la vita catartica viene dopo quella politica; poi si procede verso la conoscenza degli esseri favorita dalla virtù etica. Questi esseri sono presi in considerazione secondo i loro pensieri e le loro azioni, perciò dopo i dialoghi indicati sopra bisogna passare alla lettura del ‘Cratilo’, che offre insegnamenti sui nomi, e quindi a quella del ‘Teeteto’, che dà insegnamenti sulle cose. Dopo di ciò, si giungerà ai dialoghi che trattano gli argomenti di scienza naturale, e così poi al ‘Fedro’ e al ‘Simposio’, che dissertano in forma teoretica e trattano problemi di teologia; infine si arriverà ai dialoghi perfetti, cioè al ‘Timeo’, al ‘Parmenide’ […] [le ‘Lettere’, le ‘Leggi’, la ‘Repubblica’]” [1]. “Ecco perché – commenta Pierre Hadot – quando Porfirio, discepolo di Plotino, pubblicò i trattati del suo maestro che non erano stati fino ad allora accessibili che ai discepoli più avanzati, non li presentò secondo il loro ordine cronologico di apparizione, ma secondo le tappe del progredire spirituale: la prima ‘Enneade’, ossia i primi nove trattati, riuniscono gli scritti che hanno un carattere etico, la seconda e la terza ‘Enneade’ fanno riferimento al mondo sensibile e a ciò che vi è in esso, e corrispondono alla parte della fisica; la quarta, la quinta e la sesta ‘Enneade’ hanno per argomento le cose divine: l’anima, l’Intelletto e l’Uno; esse corrispondono all’epottica. Le questioni dell’esegesi platonica trattate da Plotino nelle sue diverse ‘Enneadi’

corrispondono piuttosto bene all’ordine di lettura dei dialoghi di Platone proposto dalle scuole platoniche. Il concetto di progredire spirituale sta a significare che i discepoli non possono accostarsi allo studio di un’opera se non sono pervenuti al livello intellettuale e spirituale che permetterà loro di trarne profitto. Alcune opere sono riservate ai novizi, altre ai discepoli più avanzati. Non verranno esposte, dunque, in un’opera destinata ai novizi questioni complesse che sono riservate agli avanzati” [2].

Questo percorso spirituale, che caratterizza tutta la filosofia antica, durava molti anni e prevedeva spesso una vita passata in una comunità filosofica a quotidiano contatto con un maestro. Chi ha dimestichezza con tradizioni sapienziali ancora viventi, sa che questa tipologia di insegnamento è ancora praticata. Ad esempio, nel buddhismo tibetano (vajrayana), il corso di studi dei tre maggiori monasteri geluk (Drepung, Sera e Ganden) dura da quindici a venticinque anni. Esso inizia con lo studio della logica elementare, articolato in tre testi: la ‘via del ragionamento’ (rigs lam) piccola, intermedia e grande.

Padroneggiate le tre vie di ragionamento, si passa ai ‘tipi di consapevolezza’ (blo rigs) e ai ‘tipi di ragionamento’ (rtags rigs).

Lo studio di queste materie occupa da uno a cinque anni e costituisce una preparazione al nucleo del percorso spirituale geluk: i cinque trattati indiani chiamati semplicemente i ‘cinque testi’. Il primo è L’‘Ornamento della realizzazione’ (Abhisamayalamkara), attribuito a Maitreya, il cui studio richiede da quattro a sei anni. Questo testo si presenta come l’‘insegnamento nascosto’ dei ‘Sutra della perfezione della saggezza’ (Prajnaparamitasutra), ossia la struttura del sentiero verso l’illuminazione. Il secondo testo è l’‘Introduzione alla via di mezzo’ (Madhyamakavatara), di Candrakirti. Il suo studio richiede da due a quattro anni. Il terzo testo è il ‘Commento alla conoscenza valida’ (Pramanavarttika), di Dharmakirti. Il quarto è il ‘Tesoro della conoscenza’ (Abhidharmakosa), di Vasubandhu, un compendio della dottrina hinayana. Il suo studio richiede quattro anni. L’ultimo testo, che richiede anch’esso quattro anni, è il ‘Discorso sul Vinaya’ (Vinayasutra), di Gunaprabha, che elenca le regole della disciplina monastica [3].

Ho fatto questa lunga premessa per evidenziare come sia ben difficile comprendere i testi di Platone senza tener presente quale fosse la funzione che essi dovevano esercitare sul cammino spirituale del discepolo. Si prenda ad esempio la questione platonica, ben evidente nel “Fedone”, della differenza fra corpo e anima e della filosofia come esercizio di separazione dell’anima da corpo (Fedone, 64 C; 67 C-D). Cosa significa questo in termini di pratica filosofica? Platone definisce la morte proprio come una separazione dell’anima dal corpo (Fedone, 64 C); cosa significa questo: che la filosofia deve condurre al suicidio? E poi: Platone non dice forse nello stesso “Fedone” (81 A) ed in altri dialoghi che il fine ultimo della filosofia è invece realizzare una condizione di immortalità? C’è qualcosa che non torna:

cosa significa veramente la parola “corpo” nel “Fedone” platonico?

Indica veramente solo questo ammasso di ossa, carne e sangue o è qualcosa d’altro?

Apro una parentesi. Anche in tradizioni orientali è molto facile fraintendere l’utilizzazione di un certa terminologia, apparentemente molto semplice perché di uso quotidiano. Il buddhismo, ad esempio, è stato considerato a lungo da certi occidentali come una dottrina pessimistica che propagandava il rifiuto del mondo e un totale annullamento di sé nel vuoto indifferenziato del Nirvana: un vero e proprio suicidio. Pochissimi anni fa lo stesso Papa presentava il buddhismo in questa chiave: “L’‘illuminazione’ sperimentata dal Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna; dunque i legami esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal mondo”[4]. Ma il buddhismo è veramente questo? Cosa significa veramente la parola “mondo” nei testi buddhisti? Ritornerò alla fine su tale questione.

Torniamo per il momento al “Fedone” platonico. Se leggiamo con cura questo dialogo, vedremo che per “corpo” Platone non intende tanto la realtà ontologica che abitualmente noi associamo a questa nozione, ma una certa modalità della percezione, la percezione sensibile (cioè corporea) e, soprattutto, l’attaccamento a questa percezione (la passione), che se assolutizzata porta a identificarsi con ciò che non siamo. Come rileva giustamente Hadot riferendosi a questo esercizio spirituale platonico: “Esercitarsi a morire significa esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività” [5].

Del resto, che questo fosse il vero significato di tale terminologia emerge anche da tutta la tradizione platonica successiva. Porfirio, ad esempio, esplicita chiaramente e sinteticamente il significato della “morte filosofica”: “Ciò che la natura ha legato, la natura scioglie e ciò che l’anima ha legato, l’anima scioglie; la natura ha legato il corpo all’anima, l’anima ha legato se stessa al corpo. La natura quindi scioglie il corpo dall’anima, e l’anima scioglie se stessa dal corpo. La morte è di due tipi: la prima, più conosciuta, che avviene quando il corpo si scioglie dall’anima, e la seconda, quella dei filosofi, che avviene quando l’anima si scioglie dal corpo; e la seconda non segue affatto la prima” [6].

Questa stessa dottrina è presente lungo tutta la filosofia antica fin dentro al cristianesimo. Han Urs von Balthasar giustamente rimarcava che “con i termini ‘carne’ e ‘spirito’, Paolo non designa delle parti della natura umana, ma sempre delle condizioni dell’intero uomo” [7].

Non si dimentichi inoltre che la cristiana tradizione monastica del deserto definiva la propria ascesi – identificata con la perfezione di vita cristiana – “filosofia” [8]. In Evagrio Pontico è reperibile un passo che riecheggia quello di Porfirio: “Separare il corpo dall’anima è potere che appartiene soltanto a Colui che li ha uniti; ma separare l’anima dal corpo è potere che appartiene precisamente a colui che tende alla virtù. Infatti i nostri Padri chiamano l’anacoresi [la vita monastica] esercizio della morte e fuga dal corpo” [9]. La condizione di perfetto distacco dal corpo, l’assenza delle passioni, era definita ‘apatheia’, termine spesso tradotto con ‘indifferenza’. In realtà, questa condizione è tutt’altro che una condizione di indifferenza, almeno per come siamo abituati ad intendere questa parola [10]. Il distacco dal corpo è infatti un distacco dall’io egoico, dal falso sé, e dalla massa di attaccamenti che esso produce ed è. Per far questo, uno degli esercizi spirituali più utilizzati nell’antichità, sia in oriente che in occidente [11], era l’attenzione verso il presente, la vigilanza verso se stessi (prosoche). Bisogna che il filosofo si eserciti in ogni momento ad essere perfettamente cosciente di ciò che è e di ciò che fa, e, nel far questo, a vivere ogni istante come se fosse il primo e l’ultimo:

“Fa’ conto che ogni nuova alba segni quello ch’è per te l’ultimo giorno” (Orazio, Epistole, 1.4.13).

“Non c’è stato giorno che io non abbia considerato come l’ultimo” (Seneca, Lettere a Lucilio, 93.6).

“È impossibile vivere bene il giorno presente se non lo si considera come l’estremo” (Musonio Rufo, fr. 22).

“Che ogni giorno la morte sia davanti ai tuoi occhi, e mai avrai alcun pensiero basso né alcun desiderio eccessivo” (Epitteto, Manuale, 21).

“Agire, parlare, pensare sempre come chi può in qualsiasi momento uscire dalla vita”.

“Compi ogni azione della tua vita come fosse l’ultima, tenendoti lontano da ogni superficialità”.

“Ciò che porta alla perfezione nel modo di vivere è di trascorrere ogni giorno come fosse l’ultimo” (Marco Aurelio, Ricordi, 2.11, 2.5., 7.69).

“Vivete come se doveste morire ogni giorno” (Atanasio, Vita di Antonio, 91) [12].

L’esercizio dell’attenzione verso di sé era caratteristico anche di Plotino, come ci riporta il suo biografo Porfirio: “La sua attenzione per se stesso non si allentava mai, se non durante il sonno, che d’altronde il poco cibo (spesso non consumava nemmeno del pane) e il continuo volgersi del suo pensiero verso l’intelletto gli impedivano” (Vita di Plotino, 8). E’ ovvio che essendo questo esercizio di attenzione verso di sé un esercizio di attenzione verso il proprio vero io (l’intelletto divino) e di distacco dal proprio falso io (l’ego e le sue passioni), l’attenzione verso di sé non preclude l’attenzione verso gli altri, ma anzi predispone ad essa. Commenta infatti Hadot il passo di Porfirio appena citato: “Cosa che non impedisce a Plotino di occuparsi degli altri. Egli è tutore di diversi bambini che alcuni membri dell’aristocrazia romana gli affidano alla loro morte, e si occupa della loro educazione e dei loro beni. Emerge qui che la vita contemplativa non annulla l’attenzione per gli altri, e che questa attenzione può benissimo conciliarsi con la vita secondo lo spirito” [13].

L’indifferenza del saggio antico, allora, non è tanto uno stato di apatia verso tutto e verso tutti, ma, al contrario, un mostrare verso ogni cosa, anche minima, la stessa attenzione, lo stesso amore, senza attaccarsi, e quindi dar privilegio, ad una cosa più che ad un’altra considerandola superiore o inferiore. Hadot, ancora una volta, ha perfettamente colto questa condizione spirituale: “L’indifferenza del saggio non è un disinteresse riguardo a tutto, ma una conversione dell’interesse verso qualcosa d’altro rispetto a ciò che accaparra l’attenzione e le preoccupazioni degli altri uomini. Per il saggio stoico, ad esempio, si può dire che dal momento in cui ha scoperto della Natura universale, esse assumono per lui un interesse infinito; che le cose indifferenti non dipendono dalla sua volontà, ma dalla volontà egli le accetta con amore, ma tutte con lo stesso amore; egli le trova belle, ma tutte degne della medesima ammirazione. Egli dice ‘sì’ all’universo intero e a ciascuna delle sue parti, a ciascuno dei suoi eventi, anche se una parte o un evento paiono dolorosi e ripugnanti. Si trova qui, d’altronde, lo stesso atteggiamento di Aristotele riguardo alla Natura: non bisogna avere un’avversione puerile per tale o talaltra realtà prodotta dalla Natura, poiché, come diceva Eraclito, anche in cucina ci sono degli dèi. L’indifferenza del saggio corrisponde a una trasformazione totale del rapporto con il mondo. Equilibrio dell’anima, assenza di bisogno, indifferenza alle cose indifferenti: queste qualità del saggio determinano la tranquillità della sua anima e la sua assenza di turbamento” [14].

Si è detto che l’Uno platonico toglierebbe valore all’hic et nunc, depotenzierebbe, come meno vera, la realtà quotidiana delle cose, degli enti finiti. In realtà ciò che veramente depotenzia la nostra visione della realtà è proprio l’attaccamento ad una immagine limitata, egoica, della realtà.

L’apertura verso l’Uno va intesa come apertura verso l’universale e verso una percezione della realtà finalmente depurata e limpida, verso la vita contemplativa (bios theoretikos) [15]. Scrive Plutarco: “Un uomo virtuoso non fa forse festa ogni giorno? E anche festa splendida, se siamo saggi. Il mondo è il più sacro e il più divino di tutti i templi. L’uomo vi è introdotto dalla nascita per essere lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini sensibili delle essenze intelligibili […] che sono il sole, la luna, le stelle, i fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l’alimento delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e rivelazione perfetta deve essere colma di gioia e di intima quiete” (De tranquillitate animi, 20). L’apertura contemplativa alla totalità del cosmo, propria della grande tradizione sapienziale greca, è stata di recente bene messa in evidenza da Umberto Galimberti: “L’impossibilità [nel mondo greco] di dominare la natura iscrive tanto il fare tecnico quanto l’agire politico nell’ordine immutabile della natura che l’uomo non può dominare ma solo svelare.

Da qui la concezione greca della verità come svelamento (a-letheia) della natura (physis) dalla cui contemplazione (theoria) nascono le conoscenze relative al fare e all’agire. […] Nella lingua latina… ‘contemplare’ è l’atto mediante il quale ogni essere riconosce il suo posto nella gerarchia cosmica, e da questo riconoscimento attinge la regola per la propria azione. Questa non si cadenza sugli scopi che l’uomo può proporsi, ma sull’ordine del Tutto a cui l’uomo deve adeguarsi, dopo aver riconosciuto nei cieli e nella regolarità del moto celeste la misura inoltrepassabile. Per questo Terenzio chiama ‘templa’ i cieli, e così Varrone e Lucrezio quando parla degli ‘Acherusia templa’. Il termine traduce letteralmente la ‘theoria’ greca, che etimologicamente rinvia a ‘thea’ (visione) e a ‘orao’ (vedere), dove, nella fusione delle due radici, si intensifica il senso di quella visione, in sanscrito ‘vidya’, che nella radice ‘vid’, da cui il latino ‘videre’, custodisce il segreto dei ‘Veda’. Per diverse e distanti che siano queste parole pre-occidentali non ospitano una prassi come intervento dell’uomo sulla natura, ma come dice, Plotino, un ‘theorema’, dove il cosmo è ‘oggetto di contemplazione’, e dove l’uomo deve assimilare il suo ‘logos’ al ‘logos cosmico che opera [poiei] restando immobile, e dunque restando in sé [en auto menon]’ (Enneadi, 3, 8.3). Questo schema, che descrive la relazione dell’uomo alla totalità cosmica, era già stato anticipato da Cicerone per il quale: ‘l’uomo è nato per contemplare il cosmo e, pur essendo lontano dall’esser perfetto, è pur sempre una piccola parte di ciò che è perfetto’ (De natura deorum, 2, 14). Se la perfezione è del Tutto, perfetta non sarà l’azione che persegue la finitezza degli scopi promossi da un’intenzionalità che non può modificare l’ordine cosmico, ma l’azione che, contemplando quest’ordine, cerca di adeguarsi consentendo al mortale di toccare l’eterno. Il primato greco della contemplazione, conseguente al concetto di verità come svelamento (aletheia), non è dunque una svalutazione della prassi, ma una sua nobilitazione a irradiamento di una visione, dove il fare (poiesis) discende senza mediazioni dal vedere (theoria)” [16].

Torniamo infine alla questione buddhista del cosiddetto ‘rifiuto del mondo’.

Effettivamente, ad uno sguardo superficiale, la lettura di alcuni passi del “Canone Pali” potrebbe dare adito all’idea di un disprezzo buddhista nei confronti del mondo: “I saggi fuggono via dal mondo” (Dhammapada, 175); “Io vi annuncio questa liberazione dal mondo che vi ho esposto secondo realtà: così ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 172). Ma cosa si intende per ‘mondo’ in questi passi? È veramente scontato quale sia il suo autentico significato? No, non lo è. Ed infatti per ‘mondo’ si intende in questi testi proprio ciò che la tradizione platonica (e non solo) intendeva con ‘corpo’ e cioè l’attaccamento alla percezione sensibile, ad una falsa immagine di sé che produce ‘dolore’ (dukkha): “Da sei cose ha avuto origine il mondo, o Hemavato, – disse il Sublime – con sei cose è in relazione, su sei cose esattamente esso si fonda ed in sei cose viene dissolto. Si conoscono in questo mondo cinque piaceri dei sensi e, sesto, quello della mente; distaccandosi dal desiderio ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 169, 171) [17]. Questa condizione interiore, in cui si è deposto il fardello del proprio ego, è anche quella che permetta la vera equanimità (upekkha), la vera compassione (karuna) e la vera benevolenza (mudita) verso tutti gli esseri: “Coltivi [colui che ha raggiunto il retto sentiero] benevolenza ed animo illimitatamente benigno per tutto il mondo: in alto, in basso e in ogni altra direzione senza impedimento alcuno, amichevolmente e con animo pacifico. Che stia fermo o che cammini, che sieda o che giaccia, sia libero da indolenza e fissi la mente sulla consapevolezza: tale condizione – com’é stato detto – è divina” (Sutta Nipata, 150-151).

Spesso, anche nel buddhismo, se ne parla come di una condizione di ‘indifferenza’, ma bisogna avere cura di intendere questa parola nel senso che prima specificava Hadot riguardo alla filosofia antica. Ecco ciò che dice in proposito il Canone Pali: “Il muni [l’asceta] completamente liberato non nutre affetti né avversioni: in lui non albergano invidia e rincrescimento, come l’acqua non si ferma sulla foglia. Come la goccia d’acqua non aderisce alla foglia del loto, come l’acqua non insudicia il loto, così il muni non si attacca a ciò che vede o sente o pensa” (Sutta Nipata, 811, 812) [18].

NOTE

[1] “Prolegomena in Platonis Philosophiam”, 26. Questo passo è tradotto nell’ottimo testo di V. Magnien, “I Misteri di Eleusi”, Edizioni di Ar, Padova 1996, p. 183.

[2] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, Einaudi, Torino 1998, pp. 150-151.

[3] Cfr. D. S. Lopez Jr., “Che cos’è ol buddhismo”, Ubaldini, Roma 2001, pp. 133-134.

[4] Giovanni Paolo II, “Varcare la soglia della speranza”, Mondadori, Milano 1994, pp. 94-95.

[5] P. Hadot, “Esercizi spirituali e filosofia antica”, Einaudi, Torino 1988, p. 51; ma si veda tutto il paragrafo intitolato “Imparare a morire”, pp. 49-58, ed inoltre il paragrafo “L’io, il presente e la morte” in Id., “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., pp. 184-191.

[6] Porfirio, “Sententiae ad intelligibilia ducentes”, 8-9 Lamberz (= 19-20 Della Rosa). Una ottima traduzione italiana di questo trattato è quella di Giuseppe Girgenti (Porfirio, “Sentenze sugli intellegibili”, Rusconi, Milano 1996), ma ottime sono anche le altre traduzioni di A. R. Sodano (Porfirio, “Introduzione agli intellegibili”, D’Auria, Napoli 1979) e di M. Della Rosa (Porfirio, “Sentenze”, Garzanti, Milano 1992).

[7] H. U. von Balthasar, “La prière contemplative”, Fayard, Paris 1972, p. 256; ma si veda più in generale per quanto riguarda l’intera tradizione cristiana H. de Lubac, “L’antropologia tripartita nella tradizione cristiana”, in Id., “Mistica e mistero cristiano”, Jaca Book, Milano 1975, pp. 59-117; M. Vannini, “La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia”, Le Lettere, Firenze 2003.

[8] Cfr. G. Penco, “La vita ascetica come ‘filosofia’ nell’antica tradizione monastica”, in “Studia Monastica”, 2, 1960, pp. 79-93.

[9] Evagrio Pontico, “Prakticos”, 52. Una buona traduzione italiana si trova in Evagrio Pontico, “Trattato pratico sulla vita monastica”, Città Nuova, Roma 1998.

[10] Si vedano i paragrafi relativi all’‘apatheia’ in G. M. Colombas, “Il monachesimo delle origini”, tomo II, Jaca Book, Milano 1990, pp. 278-283; T. Spidlík, “La spiritualità dell’Oriente cristiano”, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 248-257; P. Miquel, “Lessico del deserto”, Qiqajon, Magnano 1998, pp. 143-171.

[11] Cfr. G. G. Pasqualotto, “Il presente come divino: Epicuro, Seneca e il Buddhismo zen”, in Id., “East & West. Identità e dialogo interculturale”, Marsilio, Venezia 2003, pp. 153-160.

[12] L’esercizio spirituale del “vivere ogni istante come fosse l’ultimo” è praticato lungo tutto l’arco della filosofia antica (cfr. i riferimenti citati alla nota [5]), non solo occidentale. Il maestro buddhista tibetano Lodrö Gyatso, ad esempio, insegna: “Pensa che questo momento è l’ultimo che vivi. Perché sciuparlo con attese che non si verificheranno mai? Ogni momento è completo. Vivi ogni momento come l’ultimo” (“Il tantra dell’unico punto, Libreria Editrice Psiche, Torino 1999, p. 72). Una eco di questo insegnamento si può trovare anche in Carlo Michelstaedter: “Chi vuol avere un attimo solo sua la sua vita, essere un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte […]. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie” (“La persuasione e la rettorica”, Adelphi, Milano 1982, pp. 69-70).

[13] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., p. 155.

[14] Ibid., p. 213.

[15] Si veda J. Ritter, “Origine e senso della ‘theoria’”, in Id., “Metafisica e politica”, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 3-27.

[16] U. Galimberti, “Psiche e techne”, Feltrinelli, Milano 1999, pp.

279-280. Ma il passo è ripreso quasi alla lettera da Id., “La terra senza il male”, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 131-132.

[17] Cfr. Buddhadasa, “Io e Mio. Gli insegnamenti di un maestro buddhista tailandese”, Ubaldini, Roma 1991, pp. 158-159.

[18] Una ottima traduzione dei testi del Canone buddhista in lingua pali che ho citato, a parte l’ultimo, si trovano in “La rivelazione del Buddha”, vol. I, Mondadori, Milano 2001, alle pp. 537, 871, 874.

L’ultima citazione può essere letta in Canone Buddhistico, “Raccolta di aforismi (Sutta Nipata)”, Boringhieri, Milano 1979, p. 185.

Il Medioevo fu un’incomparabile stagione di cultura della ragione

 di Francesco Lamendola

Se è vero – come è vero – che la storia viene scritta dai vincitori, allora si spiega come l’immagine del Medioevo tuttora prevalente nella cultura odierna, largamente dominata dalle tendenze neopositiviste e scientiste di origine illuminista, è pur sempre quella di un’età oscura, credula, superstiziosa, ove la cultura era ristretta a pochi monasteri e nei quali, ad ogni modo, la ragione era tenuta in ben scarsa considerazione.

Si tratta di una visione semplicistica, sommaria, quasi caricaturale: ma, avallata incessantemente da decine e centinaia di libri, di film, di frasi fatte e di luoghi comuni, essa tiene ancora campo non solo presso il vasto pubblico dei non specialisti, ma anche – in una certa misura – in quello degli storici di professione, degli studiosi di letteratura e di filosofia, dei cultori dell’arte e di storia della scienza.

Il pregiudizio illuminista e positivista è ben duro a morire; e, anche se il panorama del pensiero si è notevolmente modificato negli ultimi due o tre decenni, mostrando quanto fosse datato il paradigma scientista che pareva destinato a sfidare i secoli dei secoli, la suddetta visione riduttiva e denigratoria della cultura medievale è rimasta, e non vi sono molte ragioni per pensare che le cose potranno cambiare abbastanza in fretta.

Il primo pregiudizio è che esista un solo tipo di ragione: quella strumentale e calcolante. La cultura medioevale – ma, in verità, anche quella greca – la pensava altrimenti: basta leggere qualche pagina di Platone o dello stesso Aristotele per rendersene conto.

Il secondo pregiudizio è che la ragione medievale fosse ostaggio della teologia, che l’avrebbe costretta a uno stato di perenne minorità e subordinazione. Nulla di più falso: la teologia medievale si è servita al massimo grado della ragione: basti vedere l’importanza del sistema aristotelico nella formazione della Scolastica, che rappresenta il vertice di tutto il pensiero medievale.

Il terzo pregiudizio è che la cultura medievale, e particolarmente la spiritualità cristiana, abbiano diffidato della ragione, vedendo in essa quanto meno un potenziale pericolo; e che tale diffidenza abbia provocato un generale ritardo nello sviluppo della filosofia e, più ancora, delle scienze empiriche.

Ora, senza voler negare che sia esistito un lungo dibattito, all’interno della cultura medievale, sulla possibilità e sul modo di conciliare i classici, ossia la cultura pagana, con la Rivelazione, resta il fatto che, alla fine, a tale dibattito venne data una risposta ampiamente positiva. E quanto al fatto che la ragione in se stessa avrebbe costituito oggetto di diffidenza, noi siamo troppo abituati a giudicare la cosa dal punto di vista «moderno», ossia di una ragione puramente laica e immanente: ed è vero che, nei confronti di un tale modo di concepire la ragione umana, i teologi del Medioevo nutrivano una viva apprensione.

Qui, come sempre, appare palese l’impossibilità di accostarsi allo studio di un dato evento o periodo storico, senza sforzarsi di spogliarsi dei propri pregiudizi e di calarsi, per quanto possibile, entro l’orizzonte culturale e spirituale in cui quell’evento o quel periodo si svolsero. In altre parole, noi non potremo capire mai nulla del pensiero medievale se continueremo a pretendere di giudicarlo con le categorie mentali della modernità; ma esso incomincerà a mostrarci le sue bellezze e i suoi tesori se saremo capaci di restituire ad esso il clima intellettuale e spirituale che gli fu proprio, e all’interno del quale ebbero origine le forme del suo pensare.

Dunque, la prima cosa da tener presente, a questo proposito, è che la cultura medievale concepiva se stessa come una cultura cristiana; che non ammetteva la separazione tra scienza sacra e scienza profana, tra verità di ragione e verità rivelata, se non nella misura in cui fosse possibile, in ogni caso, armonizzarle e compenetrarle l’una nell’altra; che la pretesa della ragione di «fare tutto da sé», ovvero di sostituirsi alla Rivelazione e alle Scritture, era vista come la classica tentazione del peccato di orgoglio, contro la quale soprattutto occorreva stare in guardia.

In altri termini, l’uomo medievale – compresi gli intellettuali – poneva dei limiti ben precisi  al Logos strumentale e calcolante non perché fosse privo di raffinati strumenti logici e speculativi o perché avesse paura di avventurarsi fuori dall’ambito delle verità rivelate; ma perché possedeva il fermissimo convincimento che il giusto rapporto fra sé e Dio si colloca entro una prospettiva che faccia propri il senso del limite e il senso del mistero.

Pertanto, per l’uomo medievale non esistono due verità, una sacra ed una profana: la verità è una, ed è tutta sacra, perché tutta di origine divina; se egli ammetteva una divisione fra la scienza sacra e le arti liberali, era solo per ragioni pratiche e contingenti. Per lui, ogni cosa proviene da Dio e ogni cosa tende a Dio, ragione compresa; perciò, è inammissibile che la ragione voglia battere una strada che non sia in accordo con la rivelazione cristiana.

Si dirà che gli intellettuali del Medioevo, in questo modo, si autolimitavano a un punto tale, da castrare le possibilità espansive del pensiero; ma è falso.

Tanto per cominciare, gli uomini di pensiero del Medioevo non erano affatto degli “intellettuali” nel senso moderno della parola: erano tutti, o quasi, degli uomini di Chiesa, spesso membri degli ordini regolari; e, per quanto vivessero in conventi o abbazie sperduti in cima alle montagne, si sentivano più collegati al mondo di quanto non lo siano molti sedicenti intellettuali d’oggi, i quali vivono entro orizzonti mentali infinitamente più meschini e ristretti, per quanto possano essere dei gran viaggiatori e avere dimestichezza con una dozzina di università sparse nei cinque continenti.

E questo legame con il mondo veniva loro dal sentirsi strettamente uniti alla volontà di Dio e dal concepire tutta la società e tutta intera la creazione come una espressione di quella suprema volontà, a somiglianza della quale è fatta l’anima umana.

Grazie alla salda fede nell’unione con Dio e nella comunione spirituale con tutti gli esseri umani – passati, presenti e futuri, tutti usciti dalla sapiente mano divina – i pensatori medievali erano sempre collegati «organicamente» (per usare un’espressione tipicamente moderna) al reale, a tutto il reale, per quanto potessero dedicarsi, magari, all’eremitaggio o a una vita «nascosta».

La ragione, per essi, era uno strumento privilegiato col quale mettersi in ascolto della volontà divina; ma non l’unico, né il supremo: perché, ben coscienti della infinita piccolezza dell’uomo rispetto alla verità divina, credevano fermamente che con la sola ragione si può esplorare bensì l’ordine naturale delle cose, ma, per accedere a quello soprannaturale, sono necessari altri strumenti, primi fra tutti la preghiera e la contemplazione (cfr. il nostro recente articolo: «Due sono i gradi dell’intelligibile: l’uno per l’ordine naturale, l’altro per quello soprannaturale», consultabile anch’esso sul sito di Arianna Editrice).

Questo è un punto capitale, e va chiarito in maniera adeguata.

Per l’uomo moderno, figlio di quel (cattivo) maestro che è stato Francesco Bacone, «sapere è potere»: ossia, all’aumento quantitativo del suo sapere, deve corrispondere un proporzionale aumento quantitativo del suo potere sulle cose. Una volta scoperto il procedimento per effettuare una operazione chimica, fisica o biologica (scissione dell’atomo; modificazione genetica delle piante; clonazione degli esseri viventi, e così via), è impensabile non tradurre tale possibilità in realtà effettuale.

Per l’uomo medievale, le cose stanno ben diversamente. Non esiste un sapere che sia pensabile indipendentemente dal piano divino della creazione; o, se esiste, esso è di natura diabolica, perché consisterebbe in una ribellione all’ordine soprannaturale ad essa sotteso; in una pretesa dell’uomo di farsi Dio e di sostituirsi a Lui (il che è esattamente il vanto dell’uomo moderno).

Facciamo un esempio.

Oggi noi sappiamo con certezza che gli architetti medievali conoscevano da tempo il segreto delle cattedrali gotiche; che avevano calcolato da tempo, cioè, il gioco delle spinte e controspinte che avrebbe permesso loro di edificare edifici di altezza sempre maggiore, con enormi superfici riservate alle vetrate dei finestroni, scaricando il peso delle navate sugli archi rampanti e realizzando il «miracolo» di innalzare montagne di pietra come se apparissero prive di peso.

Lo sapevano, ma – ecco il punto – non lo misero in pratica per alcuni secoli. Non sappiamo perché gli architetti del periodo romanico continuarono a preferire i tozzi, massicci edifici a sviluppo prevalentemente orizzontale; e perché, a un certo punto – a  partire da un luogo ben preciso, l’Île de France – passarono allo stile gotico, a sviluppo vertiginosamente verticale, che si diffuse con prodigiosa, trionfale velocità in gran parte dell’Europa.

In questo senso, tornando alle nostre riflessioni sulla ragione, è esatto affermare che l’uomo medievale era capace di autolimitarsi: ma egli non considerava tale facoltà come un qualcosa in meno, ma come un qualcosa in più nel contesto della propria vita spirituale.

Un concetto analogo si potrebbe esprimere a proposito delle forme economiche tipiche del Medioevo, anteriormente al XII secolo e allo sviluppo dei modi di produzione capitalistici: ce ne siamo già occupati nell’articolo «Il modello economico del Medioevo forse ha ancora qualche cosa da insegnarci» (sempre sul sito di Arianna Editrice).

Il corporativismo medievale, infatti, e l’atteggiamento di diffidenza della cultura medievale verso il denaro e i facili guadagni, erano l’espressione di una società ben decisa ad autoregolarsi sulla base di un certo egualitarismo e di uno «stato stazionario» (anche qui, il contrario esatto della «crescita» e dello «sviluppo» tipici della modernità); almeno fino a quando, nel XII secolo, cominciarono a formarsi le prime grosse fortune dei mercanti e dei banchieri, che avrebbero dato vita al fenomeno politico-sociale dei Comuni.

E non è certo un caso che, per Dante – come per tutta la cultura medievale – il peccato per eccellenza dell’umanità fosse quello della cupidigia, ossia lo smodato desiderio di accumulare beni terreni, così come esso è rappresentato allegoricamente dalla terza fiera che, nel primo canto della «Divina Commedia», minaccia di divorare il poeta smarrito: la lupa.

Ecco, queste sono le caratteristiche fondamentali della ragione medievale: una ragione capace di autolimitarsi, in vista di un bene superiore ad essa; una ragione che concepisce se stessa come uno strumento per meglio avvicinarsi alle verità soprannaturali; una ragione che non vuol dominare il mondo, ma mettere l’uomo in sintonia con la verità divina: perché quello che conta, in ultima analisi, non è la sapienza di questo mondo, ma la gloria di quell’altro, cui siamo tutti incamminati (ed ecco la presenza costante del senso della morte, che stride tanto alla «delicata» sensibilità di noi moderni).

Ha scritto Inos Biffi nell’«Atlante storico della cultura medievale in Occidente» (a cura di Roberto Barbieri; Milano, Città Nuova – Jaca Book, 2007, vol. 1, pp. 124-27): “Il Medioevo nel suo complesso e nell’insieme della sua durata – con tutta l’ambiguità dei suoi confini cronologici e della stessa espressione “Medioevo” – risulta un’incomparabile stagione di cultura della ragione”.

Le forme e l’intensità di questa cultura varieranno e progrediranno, non senza conoscere momenti critici, soprattutto in relazione con la teologia, ma alla fine essa si collocherà all’interno stesso della riflessione sulla fede. Le obiezioni d’altra parte, più che nei confronti della ragione come tale, si porranno per lo più contro un certo uso della “sacra dottrina”: i “sospetti” sorgeranno specialmente da parte dell’ambiente monastico, preoccupato che il metodo della ragione e la passione o l’intemperanza razionale finiranno con il “razionalizzare” e quindi con l’alterare l’originalità stessa del mistero cristiano. Sarà l’angustia e l’apprensione di un Pier Damiani, peraltro dotato di raffinatezza e di gusto estetico singolari per la sua scrittura, o di Bernardo di Clairvaux, inquieto e allarmato, fino ad essere ingiusto, nei confronti della teologia d’Abelardo, giudicato intemperante e fanatico nell’uso della dialettica in teologia, fino al limite di infrangere lo stesso mistero.

Si può dire che una prima manifestazione della “ragione” nel Medioevo si ritrova nell’uso delle “arti liberali”. Soprattutto da Agostino – nel “De doctrina christiana” il medioevo riceve “l’idea che le scienze o le arti profane, le arti liberali, appartengono di diritto a Cristo e che occorre ridarle al loro vero proprietario, facendole servire a un’intelligenza più approfondita delle Scritture. Gli anatemi dell’inizio contro il sapere umano non sono generalizzati e non durarono a lungo” (Congar). Questa concezione eserciterà un’influenza enorme nel pensiero medievale. La “nostra filosofia” (“Nostra philosophia”), afferma Agostino, è centrata sulle Scritture, ma il sapere umano rende dei servizi preziosi all’elaborazione di questa sapienza cristiana.

Questa concezione, attraverso Cassiodoro, Gregorio Magno e Isidoro, passerà nell’istituzione e nel regime scolastico, con Alcuino e la rinascita carolingia.

Due saranno le conseguenze del primato della sapienza cristiana e della funzione propedeutica delle arti liberali:

– Anzitutto il fatto che la “cultura medievale sarà nel suo insieme caratterizzata dal suo rapporto con la rivelazione e la salvezza, così come sarà essenzialmente una cosa di Chiesa, un bene della cristianità, poiché il mondo colto si identifica con quello dei chierici, e l’insegnamento è esclusivamente nelle mani della Chiesa. La scuola e le università obbediranno, bene o male, alla legge di questa cultura teologica e all’ideale della teologia-regina, servita e preceduta dalle arti e dalle scienze, sue ancelle” (Congar).

– Questo “cerchio” delle arti liberali, in cui viene dispiegato e contenuto tutto il sapere profano, si rivelerà sempre meno adeguato rispetto alle esigenze e ai contenuti della filosofia, della fisica, metafisica ed etica. “L’organizzazione degli studi, preconizzata da sant’Agostino e adottata nell’alto Medioevo, ha per lungo tempo ritardato il fiorire della filosofia in Occidente, a vantaggio della scienza sacra e, nel campo del sapere profano, a vantaggio delle arti liberali” (Fernand Van Steenberghen).

“La crisi di questa organizzazione scolastica, avvertita e preparata nel secolo XII, scoppierà nel secolo XIII con l’introduzione massiccia di Aristotele, coi suoi commentatori greci e arabi, cioè della scienza pagana, e verrà profondamente modificata. I quadri delle sette arti liberali saranno definitivamente spezzati: la “scienza divina” (“Divina scientia”) conserverà sostanzialmente il suo primato, ma la “scienza umana” (“Humana scientia”) comprenderà la “filosofia naturale” (“Philosophia naturalis”), la “filosofia pratica o morale” (“Philosophia practica vel moralis”), la “filosofia razionale” (“Philosophia rationalis”).” (Ferdinand Van Steenberghen). Allora le facoltà delle arti daranno un insegnamento sempre meno “formale” e sempre più “reale”: “Si sarebbero presto manifestate delle antinomie fra questo universo pagano e l’universo cristiano. Il grande dramma che domina la storia del pensiero nel XIII secolo è precisamente il conflitto dell’intelligenza cristiana con un paganesimo rinascente e minacciante. Questo conflitto si concretizza a Parigi nella crescente rivalità della Facoltà di teologia e sfocia nella grande condanna dell’aristotelismo nel 1277” (Ferdinand Van Steenberghen).

“Fermento filosofico per eccellenza” della cultura medievale  fu certamente Aristotele, dal cui ingresso in Occidente fu in particolare contrassegnata la teologia nei suoi diversi “regimi metodologici”. Si riconosce comunemente che l’opera di Aristotele fu trasmessa in Occidente in tre tappe, o con tre “entrate” (Congar).

1) La prima entrata, tramite Boezio, consiste nella “Logica vetus” ossia le “Categorie”, che è l’analisi e la classificazione delle nozioni, e il “Perí Hermeneias” (“De interpretatione”) che esamina le proposizioni. Si tratta quindi specialmente di strumenti razionali dell’analisi testuale, particolarmente graditi e adatti per una teologia intesa – com’è nell’alto Medioevo, fino a sant’Anselmo d’Aosta – quale conoscenza e commento della Bibbia e dei Padri.»

2) Con il suo secondo ingresso, ossia con la “Logica nova” e specialmente con gli “Analitici primi e Posteriori”; Aristotele si presenta maestro dell’arte del pensare. Viene introdotta nel XII secolo in Occidente una teoria del sapere e della dimostrazione. Questa teoria lascia la sua impronta sulla concezione della teologia come esigenza “razionale” (ricerca delle “ragioni”) e “questionale” (sviluppo delle “Questioni” nella “disputa” sul testo). Ecco allora una “teologia sotto il regime della dialettica” (Congar).

3) Ma il momento più critico e determinante è il terzo ingresso in Occidente di Aristotele filosofo con la sua fisica e metafisica, agli inizi del XIII secolo.

In questa terza entrata egli si pone nell’Occidente cristiano ormai come maestro della conoscenza dell’uomo e del mondo, con una metafisica, una psicologia, un’etica.

Portando una filosofia dell’uomo, della natura e delle realtà, poneva il problema della conciliabilità di una tale filosofia con la concezione cristiana del mondo, dell’uomo, di Dio.

Infatti non mancò di farsi vivacemente sentire la reazione della Chiesa al riguardo. (…)

Il problema di Aristotele nella cristianità si riproporrà, e la crisi scoppierà in seguito, come appare dalle censure del 1270 e, soprattutto, del 1277, a Parigi – dopo “un’inchiesta affrettata e superficiale” (Van Steenberghen) – dalla famosa condanna di Étienne Tempier di 217 articoli, alcuni dei quali sostenuti dallo stesso Tommaso d’Aquino”.

Questi, per parte sua, se da un lato polemizzerà contro la filosofia del celebre maestro della facoltà delle arti – noi diremmo della facoltà di filosofia – Sigieri di Brabante, dall’altro sosterrà fermamente il valore della ragione, la sua importanza nella formazione dell’intelligenza, nell’elaborazione della teologia – sempre nel primato della fede -, offrendo sia una molteplicità di opere teologiche costruite con ampio uso della ragione, sia un’ampia e analitica esegesi di quasi tutte le opere di Aristotele, interpretato nel suo dato storico o secondo la sua “intenzione profonda”. Tommaso è convinto che non si danno “doppie verità”, ma due ordini diversi di verità – quelle razionali e quelle rivelate – ma sempre provenienti da una fonte, cioè Dio.

D’altronde, la “confidenza” di Tommaso nella ragione non era condivisa da tutti i teologi: così, l’orientamento agostiniano-francescano apparve più cauto, per il timore che l’uso della filosofia “pagana” compromettesse o alterasse la “purezza della fede”, come aveva scritto Gregorio IX.»

Concludendo.

La ragione, nella cultura medievale, non è un idolo da adorare incondizionatamente, non è un fine, ma uno strumento. E non è uno strumento per realizzare forme di dominio sulle cose, ma per agevolare l’«itinerarium mentis a Deo», il viaggio dell’anima verso Dio, creatore di lei e di tutte le cose e meta ultima che attrae a sé ogni realtà esistente.

Entro tali limiti, essa è stata coltivata, apprezzata, e adoperata con rara perspicacia e con sottigliezza raffinata: i pensatori del Medioevo – a cominciare  dal maggiore di tutti, Tommaso d’Aquino – non la cedono in niente ai filosofi razionalisti della modernità – Hobbes, Galilei, Cartesio, Spinoza, Leibniz -, con la differenza sostanziale, però, che essi mai considerano la ragione come qualcosa a sé stante, qualcosa che possa procedere in alternativa o addirittura in contrasto con le verità rivelate del cristianesimo.

La ragione non era neppure pensabile come alternativa alla fede, così come non era nemmeno  pensabile che l’ordine naturale dell’intelligibile potesse venire posto come alternativo all’ordine soprannaturale.

Questa era la grande forza del pensiero medievale: una salda, armoniosa, indefettibile coscienza dell’unità del mondo, della relazione necessaria esistente tra la ragione e la fede, tra l’anima e Dio. Da tale coscienza discendevano lo stupore e l’ammirazione per la bellezza del creato e la radicata persuasione che la vita è ricca di significato, pur se la ragione umana non è sempre in grado di spiegarne tutte le apparenti contraddizioni e antinomie.

Primavera

È meglio non abituarsi a guardare ciò che declina, come il tramonto del sole o le foglie che cadono in autunno… Certo, il cielo al tramonto è uno spettacolo magnifico: tutti quei colori che si fondono gli uni negli altri… Come non essere in ammirazione? E quando in autunno le foglie cadono dagli alberi e sono trasportate dal vento, ci si sente colmi di una dolce malinconia e si pensa al tempo che passa… Perché no?

Ma se volete veramente ricevere in voi la fede e la speranza, andate piuttosto a contemplare ciò che nasce, ciò che sboccia… Dopo aver guardato in autunno le foglie che cadono, prestate forse attenzione anche allo schiudersi delle nuove gemme e dei nuovi fiori in primavera? È proprio allora che la natura vi trasmette qualcosa di prezioso! E se sentite il bisogno di immergervi in un’atmosfera pura e vivificante, uscite al mattino, più presto che potete, per contemplare il sole che sorge.

 Omraam Mikhaël Aïvanhov

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NUOVE FRONTIERE DELLA SCUOLA: DIDATTICA LABORATORIALE E ALTERNANZA SCUOLA/LAVORO

dal Comunicato UCIIM del 15 febbraio 2010

Tra i punti di forza della Scuola firmata Gelmini si rilevano:

  • un più stretto collegamento con l’Università e l’Alta Formazione, con il mondo del lavoro, attraverso stage, tirocini, alternanza scuola-lavoro, e col territorio;
  • un apprendimento sempre più legato al modo di apprendere delle nuove generazioni attraverso esperienze concrete, con un utilizzo maggiore dei Laboratori (ove presenti, aggiornati e utilizzabili), in modo da rendere la scuola un centro d’innovazione permanente.

Vengono posti, dunque, al centro della Riforma: esperienza sul campo, valorizzazione dei bisogni degli studenti, ricerca, indagine critica.

In tal senso, il nuovo panorama che si apre dinanzi agli operatori dell’Istruzione sembra quello di una scuola in cui il laboratorio e il rapporto con il lavoro diventano pilastri portanti del progetto formativo.

La didattica laboratoriale, come indicato nei documenti della Riforma, parte da problemi; non prevede accumulo di nozioni; rispetta stili di apprendimento diversi; prevede un progetto; implica apprendimento e didattica cooperativi; prevede una relazione tra chi impara e chi insegna.

L’alternanza scuola/lavoro è un’opportunità utile al successo formativo e all’orientamento.

I percorsi in alternanza, infatti, se coerenti con i piani di studio, possono essere una straordinaria forma di rafforzamento delle conoscenze e di miglioramento delle abilità relative all’area dei saperi scolastici, possono stimolare scelte che sono di aiuto all’allievo per riconoscersi e orientarsi con maggior autonomia.

La progettazione della didattica laboratoriale, come quella dei percorsi di alternanza scuola-lavoro, sposta la centralità operativa dalle discipline alle competenze.

Gli studenti dei Licei, degli Istituti tecnici e degli Istituti professionali potranno, così, acquisire, oltre alle conoscenze e alle competenze di base, anche le competenze spendibili nel mercato del lavoro.